Difficilmente chi sta leggendo queste righe è, o è stato in passato, completamente insensibile al fascino dei Cure. Sebbene Robert Smith a volte si sia messo quasi di impegno per distruggere l’aura di mito che circonda la sua band, pubblicando opere insulse e talvolta addirittura mediocri, l’affetto di intere generazioni di ascoltatori, dark e non, non sembra essere mai venuto meno. Senz’altro quindi la pubblicazione di questo ricchissimo cofanetto susciterà notevole interesse, anche perché si tratta di un prodotto davvero ben confezionato. Intanto in 4 CD pienissimi sono inclusi tutti gli inediti pubblicati nei retri dei singoli dei Cure nella loro più che ventennale carriera, insieme a brani inclusi in compilation e alcuni inediti assoluti. La qualità dei pezzi è in generale molto buona, paragonabile, se non talvolta superiore, a quella dei lati A da cui queste canzoni sono state tratte. Vi è poi un bellissimo libretto di oltre 70 pagine, pieno di foto, con una discografia puntuale delle pubblicazioni dei Cure e con un lungo testo che racconta la storia del gruppo attraverso le canzoni qui presentate, dando spesso voce a Robert Smith e agli altri protagonisti del passato di questa band leggendaria. Tornando alla musica i CD sono organizzati per ordine cronologico, con il primo che contiene le canzoni pubblicate dagli esordi a The Head on the Door (1978-’87), il secondo con i pezzi da Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me a Mixed Up (1987-1992), il terzo che comprende il periodo da Wish a Wild Mood Swings (1992-1996) e infine il quarto da Wild Mood Swings in poi. Va da sé che il primo CD è quello più interessante per i dark impenitenti, anche grazie alla presenza di capolavori assoluti come la famosissima “10.15 Saturday Night” e soprattutto ai singoli del periodo d’oro del gruppo (quello tra 17 Seconds e Pornography) come “Descent” e “Splintered in Her Head” e alla splendida “Lament”, affascinante in entrambe le versioni qui riportate. Gli altri 3 dischetti comunque sorprendono piacevolmente perché spesso nei lati B di singoli mediocri si celano canzoni piuttosto valide: a titolo d’esempio cito l’interessante “A Japanese Dream” che aveva l’assai dubbio onore di trovarsi sull’altro lato della nefandissima “Why Can’t I Be You?”. Il sentimento che si prova ascoltando questa monumentale opera è quella di un’estrema schizofrenia di Robert Smith, capace di comporre dei gioielli di impareggiabile fattura, profondi ed emozionanti, accanto a canzonette leggere, futili se non addirittura brutte. Come infatti si fa a pubblicare un album bellissimo come Bloodflowers, tanto oscuro e pregnante da far ricominciare a sognare i vecchi fan, per poi farlo seguire a ruota da un infelice greatest hits con singoli imbarazzanti come “Just Say Yes”, qui riproposta in un remix dei Curve? Cose brutte quindi non mancano in questa raccolta, come la cover maldestra di “Young Americans” di Bowie, o la versione drum & bass di “A Forest”, anche se, come già detto in generale la qualità dei pezzi è buona. Robert Smith va preso perciò con molta indulgenza, apprezzando le bellissime cose che compone e canta, e ignorando le porcherie che ogni tanto ci propina. Se vi accostate con questo spirito a Join the Dots potreste riscoprire emozioni sepolte nel vostro passato e ricordarvi come mai nel vostro vecchio armadio compaiono così tanti maglioni neri oversize…
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