Non ho mai avuto grande simpatia per le cosiddette “christian band” ma devo ammettere che, musicalmente parlando, alcune di esse mi sono piaciute e mi piacciono ancora parecchio… Di tale categoria fanno senz’altro parte gli Zao, che però tutto sembrano tranne che dei fanatici di religione, sia a causa del loro look da “ceffi metallari”, sia perché il sound che caratterizza le loro produzioni è ferocia allo stato puro, ed è capace di annichilire l’ascoltatore nel giro di pochissime battute! Insomma, il combo americano è davvero bizzarro se lo si giudica secondo l’ottica cui accennavo prima, e certo si propone in maniera totalmente contraddittoria, ma forse questo vale in particolar modo per gli europei e ancor di più per noi italiani, poco abituati a connubi così strampalati tra la religione e il puro intrattenimento! Al di là di tutto ciò gli Zao sono anche un gruppo di grande talento, che da diversi anni sforna dischi degni d’attenzione e che stavolta si è fatto addirittura aiutare dal celebre produttore Steve Albini, realizzando una manciata di canzoni da incubo (ma lo dico nel senso buono del termine!!), nelle quali potenza e aggressività la fanno da padrone e non lasciano spazio a cedimenti… Se non li avete mai sentiti vi dirò che la loro musica pesca a piene mani dal death più funereo e brutale, ma è arricchita anche da influenze hardcore, che evidentemente condizionano molto i membri della band in fase di composizione, specie quando si tratta di decidere come strutturare i pezzi e quanti cambi di tempo inserire. E sono proprio i cambi di ritmo che rendono così dinamica e originale la proposta degli Zao, che di sicuro li colloca ad un livello superiore rispetto alla miriade di formazioni metalcore divenute famose negli ultimi anni. Tali formazioni si sono spesso limitate a scopiazzare le cose già fatte dai mostri sacri del death melodico scandinavo, mentre Daniel Weyandt e compagni sono riusciti a mantenersi sempre molto lontani da tutto ciò, mostrando che le sonorità estreme possono essere interpretate in un modo ben più personale. Con questo non sto dicendo che The fear is what keeps us here sia un album di facile assimilazione, anzi vorrei chiarire che si tratta di un lavoro per stomaci forti, ma certamente se siete attratti da gruppi del genere avrete anche la giusta cautela nell’approcciare un sound così violento e istintivo, e pian piano ne apprezzerete le numerosissime sfaccettature. Il mio consiglio è quindi quello di procedere con calma e non dare giudizi affrettati, perché forse al primo ascolto il cd vi lascerà interdetti, ma già dal secondo vi renderete conto di quale sia il suo effettivo valore…
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