I Qntal sono, a mio giudizio, non solo un elemento di punta tra i gruppi che si ispirano alle forme musicali antiche ma anche una delle realtà più interessanti della sfera gothic in assoluto, essendo stati capaci di trovare una nuova vena all’interno della miniera costituita dalle tradizioni musicali antiche e di inserirle con autorità in questa scena: sono ormai fonte di ispirazione per numerosi altri progetti dediti a forme musicali simili alla loro ma, in alcuni casi, anche alquanto differenti; molto raramente, comunque, alla loro altezza.
Fin dalle loro origini sono stati capaci di creare una miscela praticamente perfetta tra musica medievale e moderna elettronica, riuscendo a dare nuova linfa alle forme musicali più antiche senza straziarle come hanno fatto altre formazioni di fama ben superiore alla loro. Non c’è dubbio che, da qualche anno a questa parte, si è sollevato un notevole interesse intorno alla musica dell’età di mezzo, che è diventata elemento di contatto tra scene musicali differenti: metal (In Extremo, Saltatio Mortis), musica esoterica e industriale (con esempi quali gli Hexentanz o, in tempi ormai remoti, i The Moon Lay Hidden Beneath A Cloud), forme musicali più vicine alla musica antica più popolare e “da taverna” (Corvus Corax, The Soil Bleeds Black) o più contaminate ed eteree (a partire dalla “sorgente” Dead Can Dance – con tutte le decine di epigoni – agli stessi Qntal, ma anche molti altri progetti come la Camerata Mediolanense, gli Arcana e gli O Quam Tristis); ma se questo è vero, credo che sia altrettanto importante sottolineare come i Qntal abbiano recitato un ruolo molto importante in questo processo, grazie alla loro attività iniziata nell’ormai lontano 1991.
Avendo ricevuto in regalo (ancora mille grazie, Luz!) il viaggio e il biglietto del concerto, mi si è parata davanti la difficile scelta della data del concerto: dopo una complessa e laboriosa analisi, ho selezionato quella di Berlino, città che amo incondizionatamente. Indubbiamente sarebbe stata sufficiente la sola esibizione dei Qntal per convincermi ad affrontare il viaggio ma la presenza degli Unto Ashes, a mio parere una delle realtà più interessanti in quest’ambito, come gruppo spalla ha aumentato l’interesse per l’evento. Del locale parlerò più approfonditamente in chiusura di recensione, per il momento basti dire che si è rivelato adatto come dimensioni; unico appunto da fare è un problema che si è verificato ogni tanto sulle casse alla destra del palco che, nei momenti di suono più pieno e intenso, tendevano a gracchiare: cose che succedono, comunque.
Siamo arrivati (incredibile a dirsi!) con discreto anticipo, il che ci ha concesso di dare una tranquilla occhiata allo stand del merchandising, dove ho prontamente acquistato alcuni CD, dopo di che ci siamo messi in trepidante attesa sotto il palco. Una manciata di minuti dopo l’orario previsto le luci iniziano a spegnersi e si presentano sul palco gli Unto Ashes, la cui formazione è diversa da quella che ricordavo: dei quattro membri che conoscevo ne sono rimasti due (Michael Laird e Natalia Lincoln), affiancati da un nuovo elemento (Mariko, di chiare origini orientali) al violino, ai cimbali e alla voce soprano. Il trio è accolto da un lungo applauso e le facce sono estremamente soddisfatte: probabilmente il tour sta andando bene ed è bello vedere musicisti di questo livello apprezzati come meritano
Il set offerto dagli statunitensi ha spaziato all’interno di tutta la loro discografia, pregiandosi anche della presenza di Michael Popp alle percussioni in un brano. Per chi non li conoscesse, si tratta di un gruppo che ha iniziato ad affacciarsi nel mercato musicale con qualche brano nelle compilation alla fine degli anni ’90, pubblicando il primo CD nel 2000 e raggiungendo una notevole maturità già l’anno successivo, con il bellissimo Saturn return. Le loro composizioni sono caratterizzate da una forte ispirazione alla musica e alla poesia medievali, come conferma non solo il suono nel suo complesso ma anche l’uso di liriche di Petrarca o tratte dai Carmina Burana. Altro punto di riferimento è la musica esoterica di matrice industriale, come stanno a dimostrare la splendida cover di “Ostia – In the death of Pasolini” dei Coil e il più recente brano dedicato alla memoria di John Balance.
La miscela che ne deriva è, a mio parere, carica di fascino, anche se devo dire che un paio di brani mi ha lasciato un po’ più perplesso perché si incamminavano, in maniera un po’ incerta a parer mio, in ambito electro e, su questo terreno, i Qntal rappresentano un paragone quasi irraggiungibile; fa eccezione la cover di “One world, one sky” dei Covenant, decisamente più riuscita. A parte queste piccole eccezioni, i tre hanno dimostrato di essere sicuramente all’altezza delle aspettative, in un concerto bello e ricco di fascino, mostrando di avere personalità molto diverse tra loro: Michael Laird, abbigliato con una sorta di lunga tunica, sembra essere timidissimo e chiuso in se stesso mentre si muove tra i numerosi strumenti che è in grado di suonare (percussioni, mountain e hammered dulcimer, ghironda); più solare e aperta la piccola Mariko, dotata di una bella voce e capace di suonare bene il suo violino; molto più teutonica (parla anche un po’ di tedesco) nei modi Natalia Lincoln, la quale, oltre ad occuparsi della base elettronica del suono (inoltrandosi talvolta in direzioni quasi dark ambient) è in grado di cantare con un bellissimo timbro su tonalità piuttosto basse per una donna. In chiusura eseguono anche la bella cover “Frühling” dei Qntal; il concerto finisce in grandi applausi da parte di un pubblico decisamente soddisfatto dell’esibizione. Unico dispiacere mio personale: non hanno suonato la cover dei Coil…
Qualche minuto di attesa, un breve tragitto verso il bar per rimediare una birra e sul palco si presenta un bislacco quartetto, costituito da un rockettaro “vecchio stile” che siede dietro alle pelli, un ragazzetto alla moda patito di elettronica, un menestrello d’altri tempi che indossa una lunga giacca di broccato e una donna che sembra uscita da un libro di fiabe, così piena di grazia e di fascino che tutto il resto passa in secondo piano. In altre situazioni, un gruppetto così stranamente assortito avrebbe potuto preoccuparmi ma, trattandosi dei Qntal, mi ha riempito di grandi speranze. La loro produzione è tutta di livello elevatissimo, almeno a mio giudizio; di conseguenza non avevo assolutamente in mente una mia scaletta preferita, immaginando unicamente che avrebbero eseguito molti brani dell’ultimo lavoro e alcuni loro cavalli di battaglia. In realtà, almeno a mia memoria, pur essendo stato The Silver swan il CD più quotato, le puntate a produzioni più vecchie sono state abbastanza numerose. Il concerto inizia con “Von den Elben” (durante la quale è stato proiettato, sullo sfondo, il video onirico e visionario realizzato da Brian Froud, artista fantasy famoso per le sue illustrazioni legate al mondo delle fate e responsabile anche della bellissima grafica dell’ultimo CD del gruppo tedesco); tra i brani vecchi, ricordo sicuramente due dei loro “cavalli di battaglia”, cioè “Ad mortem festinamus” (in una versione particolarmente potente e ritmica) e “Palästinalied”, ma anche la loro personalissima versione di “Mundus est jocundum” intitolata “Flamma”, la dolcissima “Dulcis Amor”, “Amor Volat”, “Flow My Tears”, “Ecce Gratum” (in cui hanno dimostrato le loro capacità musicali fuori dal normale), “Am Morgen Fruo”, e “Entre Moi Et Mon Amin”. Dal loro ultimo lavoro hanno tratto, se la memoria non m’inganna, “Monsieur’s Departure”, “Levis”, “Veni” e “Lingua Mendax”.
Sul palco il gruppo è stato capace di produrre uno spettacolo coinvolgente: un batterista metronomico, in grado di stare dietro alla perfezione digitale dei ritmi elettronici; alle tastiere, un concentratissimo Philipp Groth che non è stato fermo un attimo; dal canto suo, Michael Popp si è alternato tra gli strumenti più particolari (una chitarra, un’arpa medievale, un paio di liuti, un bouzouki, uno strumento indiano che potrebbe essere un esraj, una bombarda, una sorta di stick a otto corde con un ponticello stile violino e, per concludere in bellezza, un set di bicchieri riempiti d’acqua a diversi livelli); e Sigrid Hausen, inutile dirlo, ha ammaliato tutti con la sua voce angelica e, nel cantare gli splendidi brani che i fan ben conoscevano, ha ipnotizzato un pubblico che la osservava in religioso silenzio. Come se non bastasse, in numerosi brani sono intervenuti gli Unto Ashes, in particolare Michael Laird alla ghironda e Mariko al violino, in un’esibizione bellissima, intensa e indimenticabile.
L’essere fatato sul palco non si è accontentato di incantarci solo con i suoi vocalizzi ma anche nell’introduzione dei brani e nelle chiacchiere scambiate con il pubblico, al punto che il mio unico dispiacere legato a questo concerto è stato quello di non riuscire a carpire nulla del suo raccontare, se non qualche parola qua e là. Quando parla, la sua voce ha un timbro caldo e suadente, è molto meno acuta di quanto ci si potrebbe aspettare e, per usare le parole della mia Luz, al mio fianco per tutto il concerto e affascinata almeno quanto me, parlava sempre come se stesse raccontando una meravigliosa fiaba e il pubblico rimaneva a bocca aperta ad ascoltarla come se si trattasse di un’audience di bambini.
Se sulla loro capacità di musicisti non c’era assolutamente da dubitare, quello che mi ha colpito moltissimo è la tranquillità e l’umiltà con cui discorrevano col pubblico sia dal palco sia, a concerto terminato, al banco del merchandising, dove si sono fermati per firmare CD e altro. Ed è proprio sul parterre che è giunta l’ultima sorpresa: mentre parlottavo in inglese con Sigrid Hausen lei mi ha chiesto di dove fossi e, sentita la mia risposta, ha esordito con un: “Ma allora parliamo Italiano!”; per cui ho scoperto che, se lei passa molto spesso le sue ferie in Toscana, Michael Popp, con il quale ho fatto una piacevole chiacchierata, ha vissuto per due anni a Roma. E si è rivelato di un’apertura e simpatia fuori dal comune, divertendosi anche a scherzare sulla difficoltà di fare un concerto in Italia (“Ci piacerebbe moltissimo ma suonare da voi è veramente difficile. Siete un disastro!”) o su una persona che gli chiedeva l’autografo su un bicchiere (“I tedeschi sono strani…”).
Due parole anche sul pubblico, che ha avuto un comportamento che definirei esemplare: pur interagendo volentieri con i musicisti sul palco durante le pause, ha dimostrato un interesse e una concentrazione ben superiore di quello che ho visto in numerose altre situazioni, in cui mi è capitato di far fatica ad ascoltare la musica in mezzo ad un livello di rumore e chiacchiere a volte insopportabile.
Non mi resta che dire due parole sulla Kulturbrauerei: si tratta di una ex fabbrica di birra nel quartiere universitario di Prenzlauerberg, rimasta abbandonata per anni e recentemente ristrutturata e adibita a centro multiculturale: al suo interno, oltre alla Kesselhaus, la sala in cui abbiamo seguito il concerto, sono presenti altre sale dedicate ad eventi culturali di vario genere, teatri, un cinema multisala, alcuni ristoranti, discoteche e, in caso di necessità, anche un supermercato. E’ una struttura bellissima, edificata in mattoni rossi nello stile dell’architettura industriale della fine del diciannovesimo secolo, costituita da diverse costruzioni tutte collegate tra loro in modo da creare un’unica struttura con diverse corti interne alle quali si accede attraverso un paio di portali e adornata da torri, campanili e, trattandosi di una struttura industriale, da un’alta ciminiera. La fabbrica ha smesso di produrre birra nel 1967 ed è rimasta abbandonata fino al 1998, anno in cui si è deciso di recuperare questi edifici, considerati di importanza storica, e adibirli a centro culturale. Inutile dire che un’opera del genere poteva essere realizzata solo a Berlino, città in cui si riesce ancora a percepire un fervore culturale impressionante, molto più sentito e lontano da tentazioni biecamente commerciali di quanto non lo sia in molti altri luoghi. Non so per quanto tempo riuscirà ancora a resistere a certe (purtroppo spiacevoli) tentazioni ma, per quanto mi riguarda, non posso che sperare che questa caratteristica che rende unica Berlino si preservi il più a lungo possibile.
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