Ho conosciuto l’artista Romina Salvadori come voce degli Antinomia, eppoi dei più noti Estasia. Giorgio Ricci ha invece maturato la sua notevole pratica di manipolatore dei suoni nei Templebeat. Ancora una volta un intento che vede due anime, apparentemente diverse nella loro formazione, fondersi alla perfezione, generando un disco ricco di sfumature e di contrasti, un’esplorazione di mondi sonori incantati. Andiamo alla scoperta di questa fascinosa creatura, lasciandoci guidare dalle loro stesse parole.

Ran © Ran

Romina e Giorgio, entrambi provenite da significative esperienze maturate coi vostri rispettivi gruppi precedenti. Come vi siete conosciuti, e quale è stato lo stimolo che vi ha indotti a dar vita a questo nuovo progetto?

G: Ci conosciamo da molto tempo per vicinanze geografiche; spesso abbiamo frequentato gli stessi locali, club, concerti ecc… Concluse le esperienze Templebeat ed Estasia ci siamo ritrovati a condividere una casa, due gatti e la stessa musica.

Romina, possiedo ancora una copia di Golem (che già allora conteneva molti elementi riconoscibili pure in Ran), ed il brano “Mandolin” fu uno dei primi che trasmisi (il 6 gennaio del 1996, per me una data storica) nel corso del mio programma radio Symphony of Silence (seguì il 13 dello stesso mese “From a golden step”). Quanto è rimasto in te di quegli anni?

R: Molto poco, eccetto la voglia di fare musica. Lo so che è scontato dirlo ma, poiché ero giovane, erano anni in cui il sognare era vitale come il respirare, in cui la spensieratezza e l’istintività erano il normale modo di essere. E questo si riflette anche nel modo in cui si concepisce e si crea la musica.

Eppoi vennero gli Estasia, ovvero un gruppo che godette di grande e meritata visibilità a livello nazionale, e che certo ha contribuito alla tua evoluzione artistica ed umana. Cosa provasti allora, quando il tuo nome veniva così spesso accostato a quello di grandi del movimento musicale italiano, non solo prettamente underground?

R: La fama è una bestia molto pericolosa. Ti fa sentire superiore, quando non lo sei affatto. Credo di essere caduta anch’io nella trappola per un breve periodo di tempo. Ricordo un dopo concerto a Catania: firmavo decine e decine di autografi, facevo foto con il pubblico che spingeva per avermi, e accanto a me c’erano Ferretti e Battiato. Mi sentivo onnipotente… Ma come ti dicevo, il periodo è stato breve…

Giorgio, nel tuo caso invece il passato porta l’apprezzato marchio dei Templebeat. Esperienza che certo è da definire significativa, e che ti pregherei di sunteggiare a beneficio dei nostri lettori.

G: I Templebeat sono stati la band più lontana possibile dalla cultura musicale italiana (concordo appieno: n.d.Had). Denigrati dai puristi e snobbati molto spesso dai media nazionali siamo stati accolti da una label in una città dove perfino il cielo è considerato arte. A Berlino infatti la Dynamica, dopo la Contempo Records, pubblicò i nostri primi lavori prodotti da Paolo “Pankow” Favati; un album, alcuni singoli, remix, svariate compilation, il tutto seguito da concerti per mezza Europa e ristampe negli States.

Ran poggia sul contrasto fra i suoni freddi dei synth ed una voce che a tratti pare levarsi verso l’immensità della volta celeste (“See saw” è emblematica al proposito). Ne scaturiscono mille ambientazioni cangianti, ove il contrasto tra penombra e luce, fra calore e frigidità appare come una naturale trasmutazione di sentimenti. E’ come scivolare su d’un tappeto intessuto di note.

G: E’ proprio il contrasto il tema principale dell’album. E’ il risultato naturale di due modi opposti di intendere la musica, quindi qualsiasi suggestione trova il suo complemento opposto.

E’ il caso di “Wonder” (ma non è episodio isolato): la voce di Romina par provenire da mondi dominati da nebbie impenetrabili ma pronte ad aprirsi disvelando paesaggi di rara bellezza. Universi che appaiono dapprima remoti (come in “Anatomy”), e che poi s’avvicinano divenendo via via familiari e conosciuti. Sensazioni rassicuranti che si susseguono ad attimi di apparente smarrimento.

R: Ho difficoltà ad aggiungere qualcosa di più al tuo commento, che parla già da sé. Ho sempre cercato, nei miei progetti, di cantare con due voci molto differenti l’una dall’altra, perché sono entrambe l’espressioni di quello che sono. Quindi a volte posso essere dolce e rassicurante, a volte dura e forte.

 

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Vi sono elementi ove è più evidente la vena sperimentale, come in “Oxygen” o nella breve “Splinters”, altri invece, è il caso di “Call”, oscuri ed introspettivi, ove il pathos è palpabile.

G: Guarda caso, “Call” e’ stato il nostro primo brano e risente moltissimo dei nostri passati musicali diversi. “Oxygen” e’ invece l’ultimo dove si denota una linea comune ad entrambi come esperimento. E’ forse la canzone che apre il percorso per il prossimo lavoro.

Sopra tutto in “Call”, si riconoscono elementi riconducibili alla grande tradizione principiata dai Dead Can Dance, e perpretrata con risultati discordanti da una folta progenie. La magniloquente drammaticità espressa da questo riuscitissimo brano ne fa uno degli episodi più incisivi non solo dell’intiero disco, ma fra quanto ascoltato in questi ultimi anni.

R: Ti ringrazio… Ho voluto comporre una canzone di soli vocalizzi per esprimere in modo assoluto la mia voce, senza la costrizione delle parole che, volente o no, ti ingabbiano in certi schemi. Il risultato è stato una certa affinità con il modo di cantare di Lisa Gerrard, non lo nego anche se non è voluto…

Quali sentimenti intendete esprimere colle vostre canzoni, colle parole che ornano i vostri testi?

R: Banalmente ti rispondo: amore. A parte “Wonder” e “Kaliyuga” in cui si parla della misera condizione umana, tutto il resto è dominato dall’amore in tutte le sue espressioni: desiderio, morbosità, possessività, dolcezza…

Piero Leinardi, chitarra su “See saw”, e Giampaolo Diacci, che presta il suo basso su sei dei dieci pezzi totali, hanno contribuito esclusivamente come collaboratori, od il loro apporto si è maggiormente concretizzato nel corso della registrazione del disco?

G: Piero è un amico di vecchia data, un fondamentale supporto tecnico dai tempi dei Templebeat. Risolutore di problemi e supervisore. Gianpaolo Diacci è il bassista più quotato del Nord-Est, un amico da oltre quindici anni e ormai elemento fisso dei Ran sia live che in studio.

Quali reazioni ha fino ora suscitato Ran? A quale pubblico si rivolge, ritenete che chi vi ha seguiti colle vostre precedenti band vi si possa riconoscere ancora?

G: C’è stato un notevole interesse verso il nostro progetto ancor prima che uscisse l’album. Alcuni brani parcheggiati su MySpace avevano già attirato l’attenzione dei tanti avevano riconosciuto la voce inconfondibile di Romina. Penso e auspico che Ran si possa collocare in un mercato molto più vasto di quello ghettizzato italiano per il sound non identificabile in un genere specifico.

Perchè avete scelto la cupa “The great below”, che pure si cala perfettamente nel contesto dell’opera? Perchè proprio un pezzo scritto da Trent Reznor?

G: Reznor ha un modo di comporre molto vicino allo spirito dei Ran. E’ in grado di creare atmosfere a volte cupe ma profondamente intense e struggenti accompagnate da ritmi violentissimi. E’ il contrasto che ricorre, con suoni molto diversi, nel nostro album.

Per quanto concerne l’attività concertistica, avete già effettuato, o pianificato, delle date a supporto del disco?

G: Ci stiamo lavorando, è un aspetto organizzativo molto difficile.

Per “Wonder” avete girato pure una clip, prodotta e diretta da Tiberio Grego. Quanta importanza attribuite all’aspetto visivo della vostra creazione? Vi ripeterete in futuro?

G: Immagini e suono sono due elementi che viaggiano su due livelli contrapposti. L’immagine completa il suono e il suono crea una visione. Tiberio Grego è stato abilissimo a capire il concetto e la sostanza del nostro sound e a dargli una forma visibile giocando su pochissimi ed essenziali elementi e colori. Quella con Tiberio è una collaborazione che dura da alcuni anni iniziata con la produzione di nostre soundtrack per i suoi cortometraggi.

Ed il grazioso musetto del felino che campeggia in copertina? Di chi è quel gattino, e perchè proprio a lui l’onore della prima pagina (io a-do-ro queste creature!)?

G: E’ la nostra micia tutta bianca che insieme al nostro micio tutto nero è protagonista del videoclip. Questo sottolinea ancora ancora il contrasto degli opposti che domina in tutto il nostro lavoro.

Amici lettori, ascoltare Ran si è rivelato esperienza gradevolissima, e pure la nostra gattona Lily deve aver notato che fra i solchi del CD v’era alcunché di familiare, di felino! Accostatevi pure voi a questo intenso lavoro, ne sono certo, ne rimarrete rapiti!
 

 

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