Sull’onda del successo ottenuto con l’album di debutto, uscito lo scorso settembre, i Glasvegas sono sbarcati in Italia per un tour di tre date che li ha portati a Milano, Roma e Madonna dell’Albero (che più che un paese vero e proprio è “un gruppetto di case” alle porte di Ravenna). Nonostante i dubbi sull’effettiva riuscita del concerto non fossero pochi le cose sono andate molto bene, difatti gli headliner hanno dimostrato di essere una band assai intrigante e una volta tanto anche il gruppo di supporto è riuscito a sorprendere, rivelandosi davvero all’altezza della situazione.
Iniziamo quindi dagli Heike Has The Giggles, terzetto proveniente da Solarolo (RA) che propone un indie-pop-rock dinamico, poco prevedibile e variegato, oltre che contraddistinto da belle melodie. Talvolta i tre ricordano gli Arctic Monkeys, ma le somiglianze tra loro e gli inglesi non sono poi così nette specie a causa della voce femminile, che rende il tutto un po’ inusuale. La cantante/chitarrista Emanuela Drei è infatti un elemento fondamentale per la band, sia per le sue abilità tecniche che per la sicurezza con la quale affronta il live, ma anche il bravo bassista Matteo Grandi fa bene la sua parte, dando spettacolo con le sue movenze “a scatti” (che ovviamente vanno a tempo con ciò che suona!). Il loro non lunghissimo set è stato piuttosto tirato e il pubblico ha risposto benissimo applaudendoli dall’inizio alla fine, ma a scanso di equivoci è giusto sottolineare che al Bronson c’erano persone provenienti da varie città, e non solo gli amici della band.
Poco dopo le 23.00 sono saliti sul palco i Glasvegas, circondati da una spessa coltre di fumo che contribuiva, assieme alle luci molto basse, a rendere l’atmosfera intima e magica. Nel giro di pochissimo tempo i miei dubbi sono svaniti, non solo a causa del sound davvero bello e corposo ma anche per la presenza scenica della gruppo, che mi ha convinto da subito. Temevo fortemente un’attitudine “shoegaze”, o comunque una certa fermezza, invece ognuno dei quattro musicisti di Glasgow ha qualche particolarità: il bassista Paul Donoghue ha l’aria di uno che è in stato di trance, il chitarrista Rab Allan si dà parecchio da fare saltellando qua e là e la batterista Caroline McKay suona in piedi, mentre il frontman James Allan (la cui somiglianza con Joe Strummer è impressionante!) non si toglie mai gli occhiali da sole e canta inclinando ogni tanto il corpo e la testa, o inventandosi altre pose non proprio consuete. Tornando alla musica, direi che la stratificazione sonora che nasce dall’unione del sound “zanzaroso” delle chitarre con le basi registrate ha un’ottima resa (migliore che su disco, tra l’altro…), per cui chi ascolta si sente letteralmente avvolto dalle note, un po’ come se queste ultime diventassero dense e palpabili.
Sulla scaletta dei brani c’è poco da dire, visto che la band ha finora prodotto poco materiale e deve concentrarsi soprattutto sul disco di debutto, che è stato proposto quasi per intero. Molto emozionante il momento in cui, durante l’esecuzione della conclusiva “Daddy’s gone”, James Allan si è allontanato dal microfono e ha lasciato che il pubblico cantasse da solo (e tra l’altro bene, senza nemmeno “cannare” l’inglese…) parecchi versi della canzone: non so se si aspettava una cosa del genere ma di certo ne è rimasto colpito, almeno a giudicare dal suo atteggiamento. E giusto per concludere con una curiosità dirò che il nostro pare essere rimasto assai impressionato anche dalla bellezza delle donne italiane, difatti l’ha candidamente ammesso durante una pausa dello show e alla fine, prima di lasciare il palco, ha fatto il baciamano a due ragazze della prima fila.
Visto come è andata la serata, e visto il tipo di persone che hanno affollato il Bronson, c’è solo da chiedersi una cosa: come mai al concerto di quattro proletari scozzesi che indossano spesso abiti scuri e sono dediti a un genere che è sì moderno e “alternative-noise-pop”, ma ricorda anche tante band vicine all’area gotica (vedi il già citato giro shoegaze, e gli immancabili Jesus and Mary Chain…), mancavano quasi del tutto i “nerovestiti”? Ne ho visti in giro tre/quattro a dir tanto, e la cosa mi ha sorpreso perché sinceramente non aveva molto senso, così come non ne aveva quando vidi per la prima volta Interpol e Editors, assieme a una marea di indie-rockers dall’aspetto scialbo e poco curato. A giudicare però dal loro compiacimento, è probabile che i Glasvegas verranno spesso a suonare in Italia, e c’è da scommettere che alla prossima occasione almeno una parte del pubblico sarà un po’ più “in tono” con loro!
Tracklist concerto Glasvegas:
Geraldine
Lonesome swan
It’s my own cheating heart that makes me cry
Polmont on my mind
Fuck you, it’s over
Flowers & football tops
Ice cream van
Go square go
————–
S.A.D. light
Please come back home
Daddy’s gone
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