Dopo un quarto d’ora che ero seduta nella sala, avevo già capito che avrei amato This Must be the place. Ho continuato a ripensarci e, al di là delle opinioni più disparate, la mia convinzione si è rafforzata. Presentato, come sappiamo, al Festival di Cannes ove ha suscitato se non plauso, quanto meno attenzione, This must be the place non è solo il film di una generazione che è stata giovane negli anni ’80 ed ha avuto fra i suoi idoli – insieme a tanti altri – quel David Byrne che qui, limitandosi ad essere se stesso, ha un ruolo dei più carismatici. E’ anche l’epopea di chi non sa passare dalla giovinezza all’età adulta, di chi ‘crescendo’ o meglio ‘invecchiando’, non sa accettare questa naturale evoluzione e si sente spaesato, in un luogo che non è più il suo. E’ il ‘romanzo’ intimista di formazione, in cui però a diventare ‘grande’ non è un adolescente ma un cinquantenne che conosce “in modo molto generico” il mondo, il padre e forse anche la propria anima.
Sean Penn, sulle cui doti di uomo di cinema non c’erano ormai dubbi, interpreta il ruolo di Cheyenne: egli si aggira stralunato per tutta la prima parte del film, muovendosi, più che da abitante di questa terra, come un ospite capitato lì per caso. Le sue pose, al di là dell’’acconciatura’ e del rossetto, ricordano molto più Edward Mani di forbice che Robert Smith dei Cure. L’annoiato vagabondare nelle grigie strade d’Irlanda, ove vive in una dimora lussuosa, frutto dei suoi trascorsi successi musicali, lo conduce ad incrociare altri esseri umani in difficoltà: una giovane malinconica, Mary (impersonata da Eve Hewson, figlia di Bono Vox!), presa dai suoi problemi adolescenziali, la madre di lei, in perenne, angosciosa attesa di un figlio che l’ha lasciata, un ragazzo innamorato di Mary, che non riesce a conquistarla…a ciascuno di loro Cheyenne regala una ‘sentenza’ dal sapore surreale, pronunciata con la voce cantilenante di chi è oppresso da una costante fatica. Sono frasi che quasi sempre fanno sorridere, ma in verità non si dimenticano. La moglie, interpretata dalla strepitosa Frances McDormand, si sforza di riportare alla realtà questo curioso ‘extraterrestre’ senza mai riuscirci, ma la sua sorridente tenerezza è indispensabile per dare ordine alle sue bizzarre riflessioni.
Il mondo ‘sonnolento’ di Cheyenne si trasforma di colpo nella seconda parte del film, quando egli, giunto in America in occasione della morte del padre, scopre che quest’ultimo era un ebreo sopravvissuto ad un lager tedesco che tutta la vita aveva cercato di ritrovare il suo aguzzino. Gli Stati Uniti diventano così lo sfondo della maturazione del protagonista ed il processo si svolge nella forma tradizionale del viaggio: viaggio alla ricerca del nazista, viaggio alla ricerca del passato, raggiungimento dell’età adulta con la consapevole accettazione di sé. Proprio all’inizio di questa crescita avviene l’incontro con l’amico David Byrne (proprio lui, il mitico musicista autore del brano che dà il titolo anche alla pellicola!) che, appunto nel ruolo di se stesso, rappresenta l’alter ego ‘realizzato’ del protagonista ed ascolta la sua confessione-verità, formulata senza cantilene e finalmente priva di battute surreali. E’ un altro monologo ‘perfetto’, come già visto ne Il Divo.
Da questo momento la vicenda acquista una dinamicità del tutto in contrasto con la lentezza iniziale: Cheyenne, sulle orme di suo padre di cui sapeva davvero poco, vuole ritrovare il criminale tedesco e la caccia lo porta in varie località della provincia americana, a contatto, ancora una volta, con personaggi in difficoltà. Stavolta, però, il nostro protagonista non si limiterà ad incrociarli: finalmente riuscirà ad interagire con loro non limitandosi ad un rapporto superficiale ed evanescente ma lasciando ad ognuno – come è naturale in tutte le relazioni sociali – un contributo, un pezzetto di sé, anche solo una vasca piena d’acqua in un piccolo giardino. Poco importa se la caccia avrà successo o meno – ma le scene che la concludono sono a mio avviso imperdibili! – dal momento che il suo obiettivo non coincideva realmente con quello concreto del viaggio. This Must be the place non è affatto un film sull’’olocausto’, anche se esso rappresenta una motivazione ben fondata. La ricerca in sé è stata importante per Cheyenne e gli consente di tornare alla sua casa e ai suoi cari, finalmente ‘pacificato’ sia con il suo passato familiare che con il vissuto ‘darkettone’. Una conclusione non moralista ma dovuta, non un rientro nella ‘normalità’: essa deve necessariamente far riflettere tutti noi che, invecchiando, stiamo facendo i conti con ciò che siamo stati e oggi stiamo cercando una ‘formula’ che sia nostra.
La pregevole colonna sonora, infine, merita l’applauso a scena aperta. L’avventura americana di Sorrentino può quindi dirsi riuscita? Credo proprio di si: forse abbiamo trovato il regista che può rappresentare la sensibilità italiana in tutto il mondo.