Gli Editors hanno evidentemente deciso di ampliare il loro target e di investire sull’avventura della musica di massa, conquistando magari anche il pubblico americano. Già perplessa per il loro ultimo lavoro, In This Light And On This Evening che, a mio avviso, conteneva palesemente il seme della decadenza con il passaggio ad un’elettronica spesso facilona, non mi aspettavo però questa inqualificabile svolta che posso soltanto attribuire ad una triste mancanza di creatività e ad un vuoto di idee che la band, forse travolta dai successi raggiunti e dominata dall’ansia causata dalle generali aspettative, non è riuscita a risolvere. In effetti gli Editors hanno fatto attendere i fans per circa quattro anni, prima di rilasciare il loro quarto album in studio: un periodo che, a quanto pare, non è servito a sfornare il prodotto della loro maturità quanto piuttosto a camuffare incertezze e sbandamento. La separazione dal chitarrista Chris Urbanowicz nell’aprile 2012 certo non è stata un buon sintomo; se vi si unisce il desiderio, legittimo quanto si voglia, di cavalcare l’onda del successo e di appropriarsi definitivamente dello ‘status’ di rockstar, i conti sono presto fatti: delle undici tracce di The Weight of Your Love si salva molto poco! Che si tratti di coretti, orchestre di archi o del curioso, inedito falsetto simil-sentimentale di Tom Smith – pensare che ha una voce così bella! – sembra di ascoltare un’altra band, non quella che, nel 2005, ci ha letteralmente ‘ammaliato’ con la malinconia un po’ ‘arcana’ di The Back Room. Ma anche rispetto all’album precedente i giochi sono cambiati: ora il synth è stato messo in secondo piano ed emergono sonorità vicine al ‘rock’, con uso abbondante di basso e chitarra. Per scendere un po’ nel dettaglio: l’opener “The Weight” si colloca fra gli Echo and The Bunnymen ed i Depeche Mode, con Smith che scimmiotta con ogni evidenza Dave Gahan: forse perché i modelli cui si ispira sono comunque degni, se prescindiamo dall’intermezzo con l’’ohohoh’ ad un minuto dalla fine, possiamo considerarlo uno dei brani più efficaci. Segue “Sugar”, un ibrido rock con tanto di chitarrina e riff ‘orientaleggiante’ – di nuovo Echo and The Bunnymen? – e, ancora dopo, il pezzone ‘da stadio’ nonché singolo, “A Ton Of Love”: qui la ‘musa’ ispiratrice è una ‘colonna’ come Bono Vox ed i nostri mostrano di aver ascoltato tanto Rattle and Hum, da ragazzini. Delle tracce successive è quasi imbarazzante parlare: “What is this Thing called Love” decreta il ridicolo del falsetto di Smith per non menzionare, ahimè, l’arrangiamento di archi, davvero sprecato per una melodia così insulsa; con “Honesty” siamo alla ballata romantica e melensa, ma la banalità trionfa senza speranza. “Nothing” insiste ancora con gli archi ed il romanticismo, mentre la voce, a detta di molti, ricorderebbe quella di Springsteen: un paragone offensivo per l’americano che, al di là dei gusti personali, nella sua vita almeno le ballate ha dimostrato di saperle scrivere. “Formaldehyde” introduce una ventata di vitalità: ritmo più vivace per un inutile pezzo pop, “Hyena” punta sulla chitarra rock, “Two Hearted Spider” è quanto di più ‘dark’ gli Editors sappiano al momento produrre ed infatti, a mio avviso, è la traccia migliore in assoluto. Inutile dilungarsi sui brani in più presenti nell’edizione DeLuxe: non faremmo che intristirci ulteriormente nel rimpianto di un’occasione così scioccamente perduta.
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