Uno dei film che, quest’anno, mi ha maggiormente emozionato, si poteva vedere soltanto due giorni e la stessa cosa è accaduta in molte città. Una scelta forse comprensibile, visto che 20,000 Days on Earth, presentato al Sundance Film Festival 2014 di Park City, nello Utah e ora distribuito anche da noi, parla di un tema che forse a pochi interessa: un giorno nella vita di Nick Cave, un artista che ben conosciamo ma che di certo non gode di una popolarità tale da riempire le sale per mesi. Ciò non toglie che si tratti di una pellicola importante sotto molti aspetti e che a chiunque può trasmettere qualcosa: non solo perché il protagonista ha voluto dire tanto nella musica ed ha scritto, nella sua lunga carriera, brani di una bellezza sconvolgente, ma anche perché riesce a svelare, senza avere la pretesa di chiarirne la complessità, parte dei meccanismi che stanno dietro alla produzione di un’opera artistica mostrandoci dettagli, episodi della vita quotidiana di un personaggio ricco di qualità che però è anche un uomo e vive, sente ed affronta l’esistenza come tutti. O quasi.

La genesi di 20,000 Days on Earth la leggiamo sul web: i due registi inglesi Ian Forsyth e Jane Pollard, qui al loro primo lungometraggio, sarebbero rimasti colpiti da un’osservazione scritta da Cave in uno dei suoi diari: egli aveva raggiunto i ventimila giorni sulla terra! La sceneggiatura è scaturita dalla collaborazione dei due con l’interessato ed ispirata anche dagli appunti di lui; i testi sono nati dagli spunti che gli hanno suggerito e che egli recita via via quale ‘voce narrante’ – giustamente sottotitolata e non doppiata! – mettendo a nudo, con una sconcertante consapevolezza, lati del carattere anche connessi alla sua vita privata e così, in pratica, non è possibile staccare gli occhi dallo schermo. La giornata di Cave è ricostruita in modo romanzato, raggruppando nell’arco delle ventiquattro ore una serie di incombenze ed eventi, alcuni consueti, altri particolarmente rilevanti che, ovviamente, non possono essersi realmente verificati tutti quanti in quel lasso di tempo. Sono tante le storie raccontate, i pensieri nati e confessati, i commenti, gli aneddoti recuperati attraverso pagine scritte, fotografie e video: il bilancio di un’esistenza piena, ricca, bella, non priva di esperienze rischiose ma improntata alla creatività e all’eccellenza intellettuale. Pecca un po’ di vanità, il nostro Nick, e appare cosciente delle sue capacità e anche di quel ‘filo’ di egocentrismo che noi stessi riscontriamo, quando propone il racconto della propria vita come esemplare e, in qualche modo, emblematico dell’epoca che attraversa. Ma come non ‘perdonarlo’? Egli ci mette a parte, così, senza remore, di una serie di riflessioni, certo personali ma di grandissimo interesse, in quanto includono aspetti del mondo e delle emozioni, che ci coinvolgono profondamente.

La telecamera di Forsyth e Pollard si introduce nella casa che Cave condivide con la moglie Susie ed i figli gemelli a Brighton e lo ritrae quando si alza – anche lui, ad occhi aperti, attende che la sveglia suoni, sic… – e si osserva nello specchio del bagno. Lo segue salire in macchina e recarsi dallo psicoterapeuta, Darian Leader, al quale racconta con dovizia di particolari considerazioni, ricordi ed episodi passati, soffermandosi a svelare con sincerità sentimenti e idee: toccante, per esempio, quanto dice del valore che per lui riveste la memoria, che dà un senso al suo vivere ed è al centro della sua ispirazione. Ancora, lo accompagna nello studio di La Fabrique, nel sud della Francia, ove sono in corso i lavori per Push the Sky Away, l’ultimo album del nostro con i Bad Seeds e qui ci vengono donati molti minuti di splendida musica. Assistiamo a frammenti di strepitose esibizioni live, a pranzi a tu per tu con lo storico collaboratore Warren Ellis ma, soprattutto, sono i dialoghi  all’interno della sua automobile – è lì che maturano tanti dei suoi pensieri, egli dice – a colpire: vi troviamo personaggi come l’attore Ray Winstone, l’interprete di La proposta di John Hillcoat, di cui Cave curò la sceneggiatura e la colonna sonora, Blixa Bargeld – curioso ascoltarlo mentre spiega con semplicità i motivi dell’abbandono dei Bad Seeds – e la popstar Kylie Minogue, di cui ricordiamo la partecipazione al brano “Where the Wild Roses Grow” nel ‘95. In tutti questi casi, i registi hanno permesso che la conversazione fluisse liberamente, lasciando che il senso profondo delle parole dette raggiungesse spontaneamente gli spettatori. In altri momenti, Cave parla delle donne che ha incontrato o anche della moglie, Susie Bick, alla quale è dedicata una significativa sequenza, contenente ogni figura femminile che abbia fatto parte del suo immaginario: sembra quasi che lei le abbia accolte e tutte le racchiuda in sé, come un “ewig Weibliches”  dell’era moderna. In conclusione: per quale ragione vale la pena vedere 20,000 Days on Earth? Forse perché è da considerare una specie di dono – lui, di certo, non avrebbe avuto bisogno di rendere pubblica la sua vita per essere ricordato – che Nick Cave ha offerto a se stesso e a noi.