Dopo il bel concerto di Prato, più che naturale parlare di The King is Dead, il disco che i Kill Your Boyfriend, decisamente la band del momento, sono venuti a presentarci. Rispetto allo split con i New Candys, cui si era già accennato, questo lavoro – uscito esclusivamente in vinile per Shyrec – sembra rispecchiare con molta chiarezza le idee, le scelte ed i modi di sentire di Matteo Scarpa e Antonio Angeli che, nell’occasione, hanno potuto avvalersi di una produzione impeccabile che ben valorizza la sostanza musicale ed il ‘peso’ dei contenuti: ciò che ne è uscito è fondamentalmente un gioiellino del genere ‘oscuro’, che si voglia definirlo post-punk, shoegaze e via dicendo. The King is Dead contiene dieci tracce: due sono “Death List”, la n.1 e la n.2, le altre otto hanno come titolo nomi maschili che sembrano proprio far parte delle due ‘liste’; non so perchè ho pensato a Death Note, il celebre, cupissimo manga (‘The human whose name is written in this note shall die’). In realtà ogni nominativo cela una storia ed il tema che tutte accomuna è quello della perdita. Questo fa comprendere quanto fosco sia il clima che pervade l’intero disco. L’opener, la già citata “Death List N.1”, non è che un’introduzione strumentale di un minuto e mezzo dall’atmosfera opprimente; i giochi cominciano con “Alan”, il primo, drammatico ‘tassello’ dell’album: la ritmica e la chitarra disegnano i confini ed i ‘colori’ di questa ‘storia’ in un pulsare incessante di suoni taglienti cui il canto sofferto ben si adegua. “Charles”, poi,  esaspera lo ‘stile’, portando al più cupo shoegaze del mondo il suo contributo forsennato, “Frank” ‘formula’ la sua melodia come fosse un dileggio, con la voce che emerge sulla chitarra ‘crudele’ e, a questo punto, le note tetre di “Jesse” – l’effetto dal vivo è sconvolgente! – riescono a turbare profondamente. La brevissima  “Death List N.2” apre, come si diceva, la seconda parte dell’album: qui molti hanno notato un ulteriore ‘offuscarsi’ dello scenario, probabilmente perché la musica diviene ancora più densa e ‘pesante’ e del tutto priva di ‘macchie’ di colore. Se prendiamo, per esempio, “Lewis”, la chitarra diviene ‘fustigatrice’ e pochi altri sanno rappresentare il dolore come Matteo Scarpa nel canto sofferto; non molto da dire anche sulla successiva “Neil”, appena più lenta ma decisamente ‘funerea’, ed infine, dopo i picchi ‘depressivi’ di “Martin”, arriva la chiusa strepitosa di “Rudolph”, una manifestazione di energia minacciosa ma esaltante, una follia di chitarra, rumore e bellezza, che non può non farci amare questa band giovane ma pronta per un futuro brillante.