Si fa presto a dire new-wave. Materia per chiacchiere annoiate al bar, la sera dopo una settimana di lavoro. Robe da vecchi, direbbe mia figlia, ma non lasciamoci andare, dai, per noi quelle due paroline separate da un trattino (quando lo mettono) hanno ancora un preciso significato!
“Panacea” (la title-track di questo disco che rompe undici anni di silenzio discografico appena mitigato dalla uscita di “The tapes”) è proprio new-wave, ma aggiornata al 2017. Non semplicdemente al nuovo millennio, ché ormai siamo prossimi al completamento del suo quarto lustro. Quindi dobbiamo prenderne atto. Iniziamo dalla voce… Hussey, quello maturo, che ha saputo mantenere intatto il suo fascino, Alberto (Casti, canto e chitarre) esibisce un timbro profondo, avete presente il bourbon, quelle sfumature di quercia, di legno invecchiato… Panacea (il disco intiero, stavolta) è un’opera all’interno della quale il trascorso pesa e non poco. Con “The tapes” si sono guardati dentro, hanno interiorizzato il loro passato, hanno sviluppato e portato a termine idee ed intuizioni. E se sono tornati, gli Artica, un motivo c’è, ed a questi livelli lo si fa solo per passione, o per completare un percorso al quale mancava ancora qualche tappa. La successiva “Hellhead” ci travolge con il suo impatto frontale, concedendoci il piacere di affondare le mani nella farina della nostalgia, e levarle al cielo ricoperte di una sottile e profumata patina di pulviscolo. Ma Panacea è disco introspettivo, che con “The solitary” svela il suo umore umbratile, con le tastiere di Massimiliano Bonavita a stendere un velo di melancolia che cela allo sguardo indiscreto, ma lo lascia intravedere a quello più acuto, il vero valore di un’opera che brano dopo brano convince e conquista, come un amante discreto. E quando si giunge al termine, ecco che posizionano alle due ultime tacche della scaletta le versioni in italiano di “Evanescent” e di “Batsong” (ribattezzate rispettivamente “Evanescente” e “Prossime distanze”), perchè i romani sono stati tra i pochi, e sottolineo pochi, a rendere la lingua madre così calzante in un ambito ostile come quello del rock, palestra per anglosassoni sbruffoni che noi frequentiamo ancora con un timore riverenziale ingiustificato. Gli intrecci delle sei corde, che graffiano ma che sono pronte ad accarezzare, con Gabriele Serafini che fa sfoggio di tecnica eccellente, la sezione ritmica che tesse con mirabile perizia una trama fitta (si ascolti “The cave”, palestra ideale ove dare sfogo all’estro di Federico Marigliano e di Stefano Marcon), dalle traiettorie perfette, le tastiere che lievitano conducendoci alle porte dell’Eden, il trasporto con il quale Alberto interpreta testi pregni di poetica crepuscolare, tutto contribuisce a rendere Panacea gradevolissimo all’ascolto e, sopra tutto, lo colloca in una bolla atemporale, perchè è un disco che resisterà alla prova del Tempo, ne sono certo. Quando poi l’atmosfera si fa ancor più rarefatta (“The solitary”) ecco che l’Arte del quintetto capitolino interseca l’impellenza espositiva dei concittadini Klimt 1918, rileggendo le pagine più ispirate dei The Cure ed aggiornandole ai canoni contemporanei. Emergono allora similitudini coi Moth’s Tales di Michele Mick Gaze Rossi, altro cantore del più cristallino nitore wave. Non ci sono riempitivi in Panacea, anche “Evanescente” e “Prossime distanze” assumono nella loro seconda veste un ruolo preciso e determinante, indicando una via già tracciata e nota al gruppo, ma che può essere ancora percorsa con soddisfazione. Da noi intervistato mesi or sono, Alberto rispose così ad una mia domanda riguardante il futuro del complesso: “Il passato è passato e tutto sommato mi interessa poco. Mi aspetto musica nuova, pubblico nuovo, emozioni nuove”. Ecco, il significato profondo di Panacea è custodito in queste parole, andrete a riascoltare “Ombra e luce”, “Natura” e “Plastic terror”, ed allora tutto vi sarà più chiaro. Perchè Panacea è qui, è ora, e ciò che ci riserveranno i mesi a venire non potrà prescindere da queste nove (più due) magnifiche composizioni.