Ancora un album per la creatura di Adrian Hates Diary of Dreams e, facile da prevedere, ancora un successo per una band che sembra non conoscere nè senilità nè tanto meno mancanza di ispirazione. Hell in Eden è diverso dal precedente Grau im Licht e ipnotizza letteralmente fin dal primo ascolto. Inutile precisare che gli amanti del sound minimale e delle strutture lineari faranno meglio a girare alla larga dai Diary of Dreams: non sarebbe la prima volta che il loro stile viene definito quanto meno ‘bombastico’ e in effetti, anche più che in passato, le sonorità di Hell in Eden appaiono cariche, talora quasi barocche, con l’utilizzo degli archi e tessiture elettroniche estremamente ‘dense’. Ma il fascino di queste atmosfere che richiamano visioni gotiche e un po’ appannate dalla ‘polvere’ del tempo è davvero indistruttibile. Comincia la bellissima “Made in Shame” e propone, insieme alla classica solennità di un coro d’opera, un andamento teso e il canto impetuoso e coinvolgente. Poi “Epicon”, dopo le note iniziali di chitarra, esplode con forza drammatica inondando la scena di pathos, fra cori imponenti, passaggi orchestrali fastosi e un Hates totalmente scatenato: qualcuno troverà pomposo un impianto sonoro del genere ma a mio avviso risulta molto efficace. La seguente “Decipher Me” propone un momento più riflessivo con una struggente parte vocale nonostante l’andamento rimanga alquanto sostenuto e la title track si presenta come una ballata malinconicamente romantica che solo in qualche punto appare un po’ dolciastra. Subito dopo invece le tonalità desolate di “Perfect Halo” sono pervase di pathos appassionato senza mai cedere all’esagerazione ma anzi creando un clima di profonda partecipazione; poi, bypassata la gravità di piano e archi di “Beast of Prey” e l’impeto in chiave electro – ma sempre assai ‘depresso’ – di “Listen and Scream”, l’atmosfera pare quasi alleggerirsi con “Traces Of Light” che esordisce ancora una volta con un piano accattivante e rinforza il contesto con elettronica e cori. Delle restanti segnalo soprattutto “Bird of Passage” che inizia in tetra armonia per ‘lievitare’ in ricche sonorità elettroniche e orchestrali e l’ultima traccia “Hiding Rivers” che conclude con la meravigliosa suggestione di tristissimi archi abbinata alla voce profonda e, insieme, intimista di Hates un disco dotato di fascino straordinario che riesce davvero a penetrare nell’anima di chi ascolta.