Sono trascorsi pochissimi giorni da quello che non ho dubbi a definire uno dei concerti più belli cui abbia assistito nella mia vita e cerco di riordinare le idee e i ricordi: Nick Cave, frattanto, prosegue il suo tour che dura già da tempo e suggella un successo delle cui dimensioni non ci eravamo effettivamente accorti finchè non sono apparse le immagini e i video del pubblico scatenato in tutte le città ove ha sostato. E’ sorprendente rendersi conto che Nick Cave non è più un fenomeno privato, che abita nella parte più segreta della nostra intimità. A giudicare dalle sue scelte degli ultimi anni, proprio l’artista sente i limiti di un contesto rimasto a lungo di nicchia, giacchè ha permesso alle telecamere di Ian Forsyth e Jane Pollard (in 20,000 Days on Earth) e di Andrew Dominik (in One more time with feeling) di effettuare numerose riprese della sua vita reale e nel 2016 ha pubblicato Skeleton Tree, il suo disco più doloroso e personale, portandolo poi sui palchi di mezzo mondo per condividere con i fan i suoi sentimenti più veri. A Padova eravamo tanti ad ammirarlo e sostenerlo… talmente tanti da stupire anche la sottoscritta, non esattamente una seguace dell’ultim’ora.
Nella data veneta, niente gruppi di supporto per Nick: inizio concerto annunciato per le 21 e l’organizzazione ha provveduto ad aprire i cancelli fin dalle 18,30 per permettere l’ingresso ordinato e puntuale delle persone – una fiumana di gente, vista dall’alto delle tribune! – prima dell’apparizione del nostro alle 21.10 precise, insieme ai suoi Bad Seeds, acclamato come un’autentica rockstar. Il rassicurante completo nero che indossa sempre e che oggi, a sessant’anni di età, lo fa sembrare un po’ ragioniere e un po’ necroforo, non argina certo il magnetismo che emana dalla sua magrissima figura. Accompagnato da un manipolo di musicisti di prim’ordine tra i quali, ovviamente, il fedele collega e amico Warren Ellis, Nick Cave si propone con sicurezza, fin dall’inizio con movenze vagamente messianiche, grazie alle quali conquista il pubblico dopo la prima manciata di note. Inutile elencare la scaletta, che coincide con quella presentata anche nelle date precedenti: tutti l’abbiamo più o meno imparata a memoria. Ma ognuno dei brani eseguiti meriterebbe di essere raccontato nei dettagli, per la forza e l’efficacia con il quale ha saputo trasmettere il suo messaggio e forse anche qualcosa in più. Nell’esecuzione dal vivo quelle canzoni sono diventate il veicolo di una comunicazione diretta e immediata che è normalmente meno facile percepire nell’ascolto dal disco: chi abbia già visto suoi concerti lo sa, Nick Cave appare, esattamente come i fan, alla ricerca di un contatto quanto più ravvicinato possibile, praticamente fisico, e per questa ragione egli si offre loro con tutto il suo corpo a cominciare dalle mani; nel primo tour organizzato dopo uno dei periodi più oscuri nella vita dell’artista, il suo atteggiamento è forse da interpretare come un bisogno piuttosto che come una posa, una sorta di ‘auto-aiuto’ con lo scopo di esorcizzare la disperazione mediante l’adrenalina da un lato e il contatto fisico/affettivo dall’altro. Ma in questo che rischia di diventare uno dei live report più prolissi della storia di Ver Sacrum, veniamo a parlare della musica.
Sul palco in sette, ognuno parte di un meccanismo assolutamente perfetto che ruotava intorno al protagonista e che Ellis, impareggiabile ‘alter ego’, sembrava in qualche modo ‘dirigere’ dalla retroguardia, i Bad Seeds hanno esordito con l’ultimo album, Skeleton Tree, . La voce è subito apparsa al suo meglio: forte, piena, calda, ricca di una straordinaria espressività. Fin dai primi minuti, Nick Cave si è posizionato nella zona anteriore della scena, vicinissimo al pubblico per toccare le mani che si levavano verso di lui… è bastato molto poco per sciogliere il ghiaccio ed instaurare quella comunicazione, sia verbale che fisica, che è durata per tutto il tempo arricchendosi di svariati ‘siparietti’. Il primo dei momenti davvero ‘potenti’ si è avuto con l’esecuzione di “Higgs Boson Blues”, pezzo di Push the Sky Away considerato fra i meno significativi, che, suonato in un eccitante crescendo, ha regalato un’emozione incredibile, portata al parossismo dalla ripetizione – ‘can you feel my heartbeat’ – e dall’incontenibile energia: un vero e proprio inno alla vitalità da parte del ‘re Inchiostro’ che ha fatto venire il fiatone anche a chi era seduto. Subito dopo altri due episodi di intensità totale e febbrile: “From Her to Eternity” e “Tupelo”, la prima con passaggi folli e violenti, accompagnati da esplosioni di luce, e la seconda carica di un pathos vagamente lugubre, sottolineato dal video in bianco e nero sullo sfondo. Naturalmente erano previste anche ‘fasi’ più pacate e intimiste, culminate in “Into my Arms” con lui seduto al piano che ha prodotto, in pochi minuti, frammenti di poesia oppure, tornando al repertorio più recente, nella meravigliosa “Girl in Amber”, già molto struggente sull’album, che si trasfigura nel calore di quel canto e diventa ‘urgenza’ di esprimere il lutto, con una malinconica figura femminile che cammina nel video sullo sfondo. Ancora un apice emotivo si raggiunge con “The Mercy Seat” e con il suo impeto drammatico che va dritto al cuore insieme al violino di Ellis, prima che una versione da brivido di “Distant Sky”, con la voce unica di Else Torp, non dilaghi nella surriscaldata atmosfera. Un cenno meritano anche i tre strepitosi bis, che hanno ottenuto un successo tale da indurre il già scatenatissimo ‘re Inchiostro’ a lasciare la postazione per scendere fra il pubblico letteralmente in delirio a riceverne il tributo e l’affetto. E con le note di una potente ed emozionante “Stagger Lee” un gruppo di fan ha addirittura potuto raggiungere la band sul palco in quella che, più forte del dolore che è parte della vita e colpisce a caso, era ormai divenuta una festa della bellezza e del rock, momento celebrativo di uno dei più grandi artisti dei nostri tempi, cui siamo grati di essersi, ancora una volta, concesso con generosità e senza remore, esibendosi per oltre due ore, per regalarci un evento indimenticabile. Distribuendo ringraziamenti e saluti, stringendo infine tra le braccia un confuso ma palesemente felicissimo fan che di certo quella notte non avrà dormito, Nick Cave ci ha infine salutato con i suoni fluidi ed evocativi di “Push the Sky Away”, che pure ha saputo sdrammatizzare con qualche battuta, e ci ha fatto sentire privilegiati, come avessimo tutti goduto del suo abbraccio.