Lunghe introduzioni cosmico/ambientali precedono il cuore di queste tre lunghe tracce (la più breve conta “solo” poco più di sei minuti, ed è “Resurgence”), quando si ricorre al rifferama iommiano ed i lenti rintocchi della batteria rimandano alle origini di “Forest of equilibrium” ed alle “classiche” emanazioni del funeral doom. Absconditus sintetizza generi che hanno già subito ibridazioni convincenti, è un viaggio astrale, facendo accomodare gli Unholy su una navicella e lanciandoli nello spazio a scivolare tra gli interstizi di questo alla ricerca di vuoti e di lontane eco di civiltà estinte. Allargando lo sguardo fino a comprendere la più ampia porzione possibile di firmamento, si percepisce il remoto pulsare di stelle situate ai margini dell’Universo, e si prova una sensazione, solenne ed agghiacciante allo stesso tempo, di precipitare in orridi abissi dai quali non si potrà riemergere, risucchiati da forze incommensurabili e sconosciute. In soccorso ci giunge la componente “psichedelica” di Absconditus, inscindibile da quella prettamente doom perché perfettamente aderente, fusa con essa. Ed è qui che gli Assumption (un duo con residenza a Palermo) mostrano tutta la loro perizia: rendere un monolite nero come “Beholder of the asteroid oceans”, partito in due porzioni, un’opera a tutto tondo, parte essa stessa, come ogni singola sua componente, di un disegno più grande, immaginifico. Nel suo lento scorrere pare di trovarsi accovacciati sulla rena, ai bordi di un mare tumultuante, su un pianeta del quale mai l’umanità conoscerà il nome e l’esistenza. Ma dovremo alzarci, e riprendere la marcia, stringendosi nel pastrano ed allacciando bene gli scarponi, perché la via è lunga, e non se ne conosce la meta.
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