Una raccolta di tredici canzoni che rompe un silenzio che perdurava, per quanto riguarda un disco di inediti, da “Shooting dice with God” del 2015, ma già l’anno seguente “The orchestral album” aveva chiarito che Dani Macchi e Luana Caraffa non si sarebbero certo fermati in attesa, sul ciglio della lunga strada che porta all’ispirazione, segnando una pubblicazione significativa in una forma che altri aveva costretto a capitolare (l’abbinamento “rock-band” ed orchestra che suscita in alcuni ancora scandalo). Risolta in fatti con misura senza cedere alla tentazione di esagerare cogli orpelli. Tre tracce di No star is ever too far già si erano palesate, indicando un percorso da compiere che avrebbe tenuto conto delle certezze maturate. E dell’esperienza: fattore importante e prezioso. La voce si fa ogni anno più densa, espressiva, avvolgente di quell’aura di melancolica bellezza che il suono fatto ormai proprio richiede. Gli arrangiamenti sono curati, ogni singolo episodio viene elaborato tenendo fede al contenuto. Una “Mengele in disguise” (la narrazione fa ancora ricorso a figure realmente esistite, che si intrecciano con una visione della vita che non rinuncia a penetrare nelle ossessioni, nelle paure, nelle censure) non farebbe lo stesso effetto, il titolo, “forte”, è bilanciato dallo sviluppo della canzone; a tratti No star is ever too far suona come dei Fleetwood Mac incupiti che, invece di lasciarsi dilaniare dall’ego, si trovino pronti a capitalizzare il tumultuare delle emozioni lasciandosi trasportare dal flusso dell’ispirazione più “dark” (il singolo “The purest of loves”). Se “Come, Babylon” e “Doomsnight” corrono via svelte, “Astronomer of life” si ferma meditare su cosa ci attende sfiorando colla mano la superficie fredda e levigata di una lastra di marmo. E “More more more” possiede quel piglio a la “The method to our madness”, quando i The Lords of the New Church immolarono i loro grezzi talenti sull’altare dei Rolling Stones più “neri”, con buona pace di chi si rifugiava a New Orleans alla ricerca di un’idea da fissare sul pentagramma. Perchè tutto brucerà in fretta, anche troppo, e non ci lascerà scampo né tempo da sprecare. No star is ever too far è anche auto-celebrazione, possono permettersela considerando la lunga lista delle collaborazioni che segna il loro trascorso artistico; “Free” s’abbandona all’epica grandiosa del rock americano, quella che t’aspetti mentre stai guidando da ore nel nulla… Ogni tassello al suo posto, voce, strumenti, arrangiamento, a-solo di chitarra che giunge al momento giusto, e quel crescere, ascendere al cielo sospinto da cori immaginifici. “The Turing sniper” (nella versione in madrelingua è presente in “Ricordati di me” di Muccino), “We belong to hell”, questa sì oscura, avvinghiata su se stessa, le pause di “Black beauty” (che è stata inserita nella colonna sonora di “Farenheit 11/9” di Michael Moore e che tocca le corde dell’emozione), riposare corpo e mente per poi ripartire, concedendo alla conclusiva “Rising in love” di rileggere ancora il passato, al quale si riallaccia, elegante piece che, ascoltata la prima volta, è come se l’avessimo da sempre nel walkman. La forza del classico che misura la grandezza di una band. No star is ever too far è davvero grande rock. Quello che esiste ed è sempre esistito. Cuore ed istinto immersi nel liquido amniotico delle produzioni degli anni settanta, contenuto ed esposizione attualissimi. Ed appeal radiofonico, quello sì tanto, in sovra abbondanza, ché la non è solo rime buttate li a caso ed ostentazione di anelli e catene d’oro.