Rendered Armor è l’ultimo lavoro di un gruppo che conferma sempre più la sensazione positiva che aveva destato fin agli esordi. I Ritual Howls hanno sfornato, in sostanza, un gran disco, che mostra un consolidamento della loro ispirazione, affinatasi con lo sviluppo degli aspetti più originali, senza tagliare i ponti con la tradizione postpunk e, in generale, con le scelte di stile cui i nostri ci hanno abituato. Il basso ci piace moltissimo, la parte vocale di Bancell ha un carisma indiscutibile e gli arrangiamenti, spesso ravvivati da passaggi elettronici incisivi, assai più presenti che nelle produzioni precedenti, si dimostrano variegati e interessanti, oltre che aperti a diverse ‘forme’, con un eclettismo fecondo che regala ‘frutti’ di grande rilievo. Otto tracce che vale la pena di scorrere brevemente: “Alone Together”, il primo singolo e opener dell’album, è già uno dei brani più affascinanti, il canto profondo e intenso abbinato ad una chitarra in modalità ‘Far West’ e a una linea ‘sintetica’ sottile e penetrante, che pure lascia il segno e il risultato è a dir poco irresistibile, un po’ Morricone e un po’ Wall of Voodoo, per una storia d’amore dai cupissimi risvolti. Subito dopo, atmosfere non certo più lievi in “Mother of the Dead”, dove è il basso, comunque, a trionfare e l’impostazione minimale esalta la voce più che mai, mentre la seguente “Love Cuts” propone un postpunk spietato che non lascia via di scampo; “The Offering” mescola di nuovo il mood ‘morriconiano’ con una trama elettronica da perfetta darkwave. In “Devoured Decency”, alla formula preferita da nostri si aggiunge una ritmica più incalzante e, occasionalmente, qualche efficace ‘rumorismo’, tanto per rendere l’insieme più intrigante, e la melodia è decisamente fra le più riuscite; “I Can Hear Your Tears” opta per uno scenario spiccatamente drammatico, con un’elettronica sorprendente a tinte industrial, mentre la voce alterna toni ‘cavernosi’ a sussurri minacciosi. Anche “Thought Talk” si mantiene in aree di grande oscurità in cui il basso sembra quasi rimbombare sulla chitarra che accenna accordi da ‘ballata’ mentre infine “All I’ve Known” conclude lugubramente, echeggiando qua i Cure e là i Sisters of Mercy, un disco bello, significativo, da apprezzare incondizionatamente.