Esplorazioni sonore di Trevor Humphrey da Oakland, CA, il quale nel 2016 ha dato il via al solo-project Deer Park Ranger. Eccellente monicker evocante foreste sconfinate. Quanto mai adatto alla proposta, Wolf è il secondo disco della sigla, e compila con attenzione maniacale per il dettaglio ben dieci tracce ascrivibili ad un post-rock etereo. Silenzi squarciati dal rimbombo delle note, come un temporale ancora lontano annunzia il suo giungere, carico di elettricità, alti e bassi, la notte di “Lost the thread”, l’immobilità assordante che richiama l’epica di “Into the wild”, del quale potrebbe fungere da colonna sonora di complemento. No, non voglio recare offesa a Mr. Vedder, è che ascoltando Wolf questo si prova. La quiete di “Wax wings” s’immerge nel liquido denso ove scorrono note evocanti spazi siderali attraversati da miriadi di minuscoli grani luccicanti come sabbia dorata: ali di cera destinate a sciogliersi incrociando i raggi del Sole. Emozioni che si rincorrono, evocate dalla narrazione poetica di Humphrey, generoso nell’offrire all’ascoltatore frammenti di memorie ancestrali da condividere; ma “Patchwork people” racchiude nel seno del suo titolo un messaggio, un monito, e quivi la musica si fa più scura, introversa, si avvolge su sé stessa. A volte il costrutto armonico mostra delle crepe, delle indecisioni che vengono presto superate di slancio. Una corsa a perdifiato nel parco, scansando le pozzanghere ma non l’ultima, nella quale saltare dentro a piè pari, fra schizzi di mota e di frammenti di foglie marcite. Fino alla dichiarazione finale di “The worl will never find you” che chiude un disco da ascoltare in cuffia, ad occhi chiusi. Una confessione, un monito, chissà. Wolf nulla aggiunge alla teoria del post-rock, e sicuramente non possiede la statura per competere con i grandi del genere. E’ però un’opera sincera, Trevor Humphrey un risultato lo ha ottenuto, solleticare la nostra curiosità. Un buon punto di partenza, sarà necessario ampliare il bagaglio di soluzioni, però.