Facile scivolare nella retorica, quando trattasi di rendere cronaca un rientro di siffatta portata. Anche comodo, ti togli un po’ di polvere dal bavero della giacca e lasci che siano gli altri a cercare di cavarne qualcosa di sensato.
No, non è una reunion, questo lo ho già scritto, lo abbiamo appurato.
Quando la puntina cala su “Lady Wine” è evidente però che la memoria tiene ancora e lo spirito dei tre è rimasto intatto. O forse semplicemente si è rigenerato. Allontanarsi a volte è necessario. Dona alla visione una prospettiva diversa. Osserva da una certa distanza, poi compi qualche deciso passo indietro. Qualcosa cambia. Oppure ritrova un oggetto dopo anni che l’avevi lasciato in un cassetto. Uno scritto, meglio. Il Tempo lascia sempre il suo segno. E ne è trascorso davvero tanto, di Tempo.
“Lady Wine” è irrorata di quello spirito che ha animato il gruppo in anni che qualcuno preso dal rimpianto definisce “bellissimi” per la semplice ragione che era più giovane. Io il rimpianto lo evito come fosse l’appestato che si fa precedere dal tintinnio della campanella. Certo che non siamo più gli stessi, ci mancherebbe, ma non badiamoci troppo. La batteria che scandisce il ritmo così netto, così preciso, un tocco che è metallo che ti sferza il costato, la chitarra (le chitarre, considerate che Iride Volpi, già con DLM nei Diggers, è nel gruppo come effettivo, il suo solido contributo è fondamentale nei NMLTD) che cala dall’alto, rantolo che è sofferenza fisica ma anche malessere provocato dal vizio perpetrato, la voce, quella voce che gli anni hanno segnato, che ha acquisto in profondità, è più rotonda, più avvolgente fino a stringerti la gola in un abbraccio mortale… Una semi ballata scheletrita, nerissima, catramosa, intrisa di fumo stantio. Pregna di un odore indefinibile, ma che conosciamo bene, quello d’una stanza rimasta chiusa al buio per troppo tempo. Ancora polvere (quella che si deposita sulla vostra giacca nera, un po’ lisa sulla schiena, sui gomiti, coi bottoni allentati, forse un passaggio dal sarto richiederebbe, per irrobustire le cuciture e riassestare la fodera), qualche ragnatela che festona gli angoli come la carta crespa lasciata lì dopo una festa, il cui facitore giace ormai sul pavimento, istecchito, ché la Morte ha portato via pure lui, povera creatura. Ecco, sul lato B (che suona a 33 giri, quello A a 45, io me ne sono accorto dopo averlo fatto partire…) “Suicide temple” e “Spider” (se non lo possedete ricuperate “Live in the 80’s” ed ascoltatele nella loro grezza veste live) assumono una forma aracnoide, forse perché le voglio proprio così, riflettersi nell’ombra della mia stanza preferita, ove mi rifugio per raccogliere pensieri, o solo per sentirmi solo. Tele dalle geometrie perfette, ma i cui contorni si sfocano. Queste sono le canzoni, ed a questo servono. E’ necessario, indispensabile saperle scrivere, e meglio ancora interpretarle. Possedere quell’Arte, e praticarla come s’officia un rito. Erano fra i migliori, i Not Moving. E oggi non sono da meno.