Not Moving L.T.D. all’Astro Club – Foto di Michela Breda

Non potevo perdermi il live dei Not Moving L.T.D.. E non è questione di Nostalgia. 

Nella Nostalgia si rifugia chi non coltiva più la speranza, chi non trova più la forza per guardare avanti. La Nostalgia va coltivata con cura ed assunta in piccole dosi. La memoria può disperdersi nei mille rivoli dell’oblio. La Nostalgia ci permette di ricuperarne brandelli dimenticati.  

Bel locale l’Astro. Piccolo e funzionale. La serata viene aperta dai SuperHype. Pordenone. Hi-energy punk/glam-rock’n’roll. Chitarra/basso/batteria e voce. Eccellente tenuta del palco, non sono certo degli esordienti, manifestano disinvoltura ed esibiscono quel tocco di spavalderia che te li rende immediatamente simpatici. Empatia. E che carica, una carrellata di brani veloci, che bruciano in fretta come una Chesterfield fumata nel freddo. E la cover di “Born to kill”? Firma Brian James, i Damned, ‘77 (again!). Anche la ruffianata (“CBGB rock” tale è) gliela perdoni, perché no?, fa parte del gioco. Hanno all’attivo un disco dal titolo che merita un riconoscimento, Never mind the botox here’s the SuperHype, per la piccola e da me già celebrata Aua Records. Dieci tracce chiuse dalla rendition di “Aces of spades” (sì, proprio dei Motorhead) che non dovete assolutamente ascoltare mentre state guidando. Segnatevi il loro nome, SuperHype! 

Dei CUT possiedo Annihilation road (uscito per la meritoria Go Down Records). Non lo ascoltavo da anni. Mea culpa. 

Dovevano nascere a Minneapolis. Anche no, che forse ce i saremmo persi. Sono in tre, la loro è una concezione di punk/garage rock’n’roll basica, essenziale. Ritmo e devastazione. Sorretto dalla batteria, il suono dei CUT non mostra cedimenti, sporcizia eletta ad Arte. Un pugno di canzoni brevi, veloci, su e giù dal palco, rovesciamento dei ruoli, coinvolgimento fisico totale. Ma devo ricuperare il tempo perduto.  

Not Moving L.T.D. all’Astro Club – Foto di Michela Breda

Not Moving L.T.D., dove, serve ribadirlo, tanto lo avete già letto su chissà quanti blog, LTD sta per Lilith, Tony (Face) e Dome (La Muerte). “Non è una reunion” perché “gli anni passano”. Sì, vero, passano, maledetti, e lasciano anche il segno, a volte. Completa il quartetto la solida chitarrista Iride Volpi, già con Dome La Muerte and the Diggers. Concentratissima, non patisce soggezione, il suo apporto si rivela fondamentale nel sostegno all’impalcatura sonora eretta dai Not Moving L.T.D.. Che hanno appena pubblicato un 7” (recapitatomi proprio la mattina istessa del concerto!), lato A l’inedita “Lady Wine”, sul B (che suona a trentatrè giri) le versioni rilette di “Spider” e di “Suicide temple”. 

L’imperturbabile Tony Face. Un Signore che merita appieno questo attributo. Una sicurezza per chi gli sta davanti. Come Charlie Watts che teneva (tiene…) il ritmo per quegli altri… Lilith ha mantenute intatte classe e carisma. Si muove con eleganza spontanea, misurata. Ogni sua mossa assume un significato quasi rituale. Il “suo” concerto inizia quando si leva la parrucca che cinge il suo capo nella primissima parte dell’esibizione. Gesto che personalmente interpreto come mettersi a nudo, accettarsi, “gli anni passano”, ma non per tutti alla stessa velocità. La voce non è più quella degli ottanta (ma chi se la ricorda più, dai!), ma la figura iconica che scivola da una parte all’altra del palco catalizza ancora l’attenzione, oggi come ieri. Dome La Muerte. Segaligno, scavato. Piegato sulla chitarra. E’ Dome La Muerte. Serve altro? Cristo, lo osservo e… no. E’ un qualcosa che emerge dal passato, ma non riesco a percepirne l’origine… 

Il suono. Ossa percosse tra i fumi esalati dagli acquitrini della Louisiana. Macerazione del r’n’r. Decadenza interpretata con affettata nonchalance. Con stile. Perché il loro repertorio, “quel” preciso repertorio, è inattaccabile. E viene interpretato senza concessioni all’indulgenza da chi lo ha creato. Il lezzo pungente dell’eccesso, le ultime esalazioni di un’epoca che stava per vivere l’ennesima mutazione. Il suono di Detroit che venne poi, con le camicie paisley lordate dal grasso che colava dai macchinari delle linee di montaggio, alle quali si veniva incatenati come schiavi. I NM non le indossarono mai. Loro preferivano il nero. Mistero e Morte. I germi dei Christian Death di “Only theatre of pain” e dei 45 Grave che infettano la materia. I Not Moving L.T.D. non celebrano se stessi, non ne hanno bisogno. Perché d’altronde attraversare parte dell’Italia per venire a suonare fin qui? Loro (e come loro tanti altri) rappresentavano il suono del confine ultimo, quello che sbatteva contro un muro (un Muro…) e che ti tornava indietro, ti faceva sanguinare l’anima. Non era fatto per piacere. Era immediato. Incompromesso. Non siamo più negli ottanta. Quelli sono finiti, ce ne siamo fatti una ragione, ma il fascino di queste canzoni, quello ha superato la prova del Tempo. E’ un cerimoniale che in parte ha rinunciato alla componente più lugubre; gli officianti hanno acquisito una consapevolezza diversa, osservano la Vita da un punto di vista più profondo, al quale contribuisce e non poco l’esperienza accumulata. Che si è stratificata, proprio come il fogliame che cade sul terreno umido, marcendo, stagione dopo stagione. Perché è vero, “gli anni passano”. La mettono a frutto, l’esperienza, donando a queste canzoni che rimangono fedeli alla loro matrice, una maggiore profondità. Una consistenza ed una bellezza peculiari. Quella che li consegna al domani. Esagero? Forse, ma fa parte della “narrativa” del r’n’r, no? 

Nota: in corsivo virgolettato parole di Rita Lilith Oberti. O forse me le sono immaginate, chissà. Eh, le paludi della memoria ed i loro miasmi…

Si ringrazia Michela Breda per la concessione all’uso delle foto del concerto.

Not Moving L.T.D. all’Astro Club – Foto di Michela Breda