Acque fredde, acque sporche. Più che da Brooklyn paiono provenire dall’America rurale, quella dei tramonti che s’allargano su vasti spazi che paiono immoti. Quando ci si raduna a chiacchierare, a raccontarsi storie assisi sulla staccionata che delimita i confini del villaggio. La quiete bucolica di “Cool water”, ma il tempo può cambiare, ed ecco che “Wading in dirty water” si rifrange in mille rivoli distorti. Mercy è il quarto album per The Men, quartetto che in passato ha affrontato le turbolenze di una line-up che faticava ad assestarsi, a trovare un assetto definitivo. Non è uniforme, è quasi una raccolta di immagini, di fotografie di stati d’animo e di situazioni diverse. Piace quando s’impenna, ma anche quando, come in “Call the Dr.”, lascia che sia il southern goth a sospirare. Ma da bravi americani, con “Children all over the world” (primo singolo e video) declinano il verbo del rock da FM a loro piacimento, sovvertendone le regole, assecondando le tentazioni di un suono rutilante, fintanto che il brano pare spezzarsi evitando così l’abbandono all’autocompiacimento. Cartoline, come quella “Fallin’ thru” che si asciuga come la fila di panni messi a stendere dalla massaia, ora intenta ad infornare lo stufato per i suoi ragazzi. Poi arriva “Breeze”, nemmeno tre minuti, ed ecco che esce fuori l’anima dei The Men. Bella sparata, uno due tre e quattro e via. Nessuna sovraincisione, tutto in diretta, Mercy è bello così.