Dopo tanti anni di passione per la musica e di ascolti costanti, non capita così spesso di trovare un album e innamorasene subito. La band irlandese Fontaines D.C. ha pubblicato da poco il secondo lavoro A Hero’s Death che rischia seriamente di lanciare di botto questi giovani dublinesi in una scena che fino ad oggi li ha considerati il giusto se, come colpevolmente devo ammettere, noi e molti altri avevamo ignorato il loro debutto, Dogrel, uscito solo l’anno scorso. Ma nella verde Irlanda i ragazzi sono diventati presto noti e idealmente designati come i figli ‘modello’ del postpunk, del quale hanno compreso lo spirito, rinnovandolo e rispecchiandosi nella tradizione musicale più ‘depressa’ che la storia ricordi con malesseri, introspezione cupa e una rabbia giovane e sincera, coinvolgente anche per i musicofili più smaliziati. Ma i cinque non sono spinti soltanto da istinto e predisposizione naturale: colti e impegnati, si sono lungamente interessati di poesia oltre che di musica e i testi, insieme alla formula scelta, mostrano la presenza di quella particolare sensibilità di cui A Hero’s Death porta le tracce ovunque, forse più del primo disco, soprattutto connesso, nell’ispirazione, alla profonda relazione del gruppo con Dublino, la sua città. Vediamo nei dettagli: l’opener “I Don’t Belong” è uno di quegli episodi che, fin dalle primissime – tristissime – note, suscitano amore immediato, anche se si tratta ‘solo’ di basso, chitarra e pochi altri ingredienti… la voce del frontman Grian Chatten che declama con tonalità tipicamente schiva ‘non appartengo a nessuno’ sembra un omaggio a tutta la tradizione postpunk di cui ci siamo ampiamente nutriti dagli anni ’80 ad oggi. Subito dopo, “Love Is The Main Thing”, al di là dell’illusorio ottimismo del titolo, è un brano cupissimo e la “frenesia” del ritmo pare alludere a una sorta di inseguimento vacuo, tutt’altro che ‘amoroso; “Televised Mind” esordisce con un basso straordinario e prosegue al galoppo mentre nel canto si percepisce una rabbia a stento trattenuta ma mai esplicita, analogamente alla successiva “A Lucid Dream”, una delle poche davvero ‘cattive’, che investe l’ascoltatore come un veemente proclama. Poi, con “You Said”, la festa sembra finita: stile introspettivo, una melodia riuscita e una voce giovane e corrucciata che dà un po’ il tormento; il mood è analogo in “Oh Such A Spring” in cui la malinconia diviene struggente rimpianto. La title track riprende la ‘corsa’ con il suo ritmo incalzante e il suono di una chitarra elettrizzante ma è con “Living In America” che possiamo sentirci davvero gratificati: chitarre incredibili, tinte nerissime ma con tanta passione, è il classico brano che non può definirsi che emozionante. In realtà anche la seguente “I Was Not Born” è caratterizzata da un impeto notevole, ma è permeata di uno spirito anni ’70 un po’ inatteso; la chiusa, affidata a due episodi decisamente pacati, riesce comunque a sorprendere: in “Sunny” si apprezza addirittura un ‘coretto’ di sottofondo con una voce femminile mentre “No” regala un momento ‘intimista’ di pathos intenso ma nel complesso armonioso, perfetto per concludere un album che ha tutti i requisiti per figurare in molte classifiche di fine anno… nella mia ci sarà di sicuro.
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