Idiot Prayer: Nick Cave Alone at Alexandra Palace è nato come esibizione live di Nick Cave ripresa da Robbie Ryan, di cui si è vista, in estate, una versione in streaming con vendita online dei biglietti; ora sono disponibili sia il film che l’album. Come si è letto in giro, la release prende il posto del grande tour progettato per l’uscita di Ghosteen, che non è stato realizzato per l’avvento del Covid: la reazione di Cave alla frustrazione di non poter portare a termine il suo piano è stata, in sostanza, quella di registrare una performance all’Alexandra Palace di Londra nella quale suona tutto solo – e senza pubblico! – con l’unico ausilio del pianoforte, una significativa selezione dal suo repertorio, in un’atmosfera che definire magica è dir poco. L’opera è stata indicata dallo stesso artista come la parte finale della trilogia – insieme a 20.000 giorni sulla Terra (2014) e One More Time with Feeling (2016) – con la quale egli ha voluto mettersi a nudo, sia per una personalissima terapia liberatoria sia per un gesto di generosità verso i fan, giacchè ha donato loro un’occasione unica di contatto. Chi, come la sottoscritta, non ha avuto l’opportunità di assistere al film, può accedere all’album che ne è stato tratto, uscito il 20 novembre sulle piattaforme. Idiot Prayer contiene ventidue brani, alcuni molto noti, altri meno, altri ancora addirittura inattesi, ma messi insieme sapientemente per creare un contesto di grandissima intensità. Per alcuni di loro, in effetti, non si può neanche parlare di una rielaborazione, poichè il pianoforte vi era già presente in modo centrale: essi vengono semplicemente ‘ripercorsi’ in una forma, per così dire, più ‘privata’ e colmati di emozioni ‘aggiuntive’. Altri, invece, sono stati ‘spogliati’ e, privi di qualsiasi arricchimento ‘accessorio’, sono divenuti una semplice ‘ossatura’ sonora che l’artista da solo – con la voce dell’anima – ha pervaso di armonia e di bellezza pura. Lo show inizia con la recitazione , praticamente senza musica, delle parole di “Spinning Song”, l’opener di Ghosteen, sulla cui forza l’attenzione inevitabilmente si concentra. Quindi, il cupo attacco della titletrack introduce alla sofferta emozione che questa versione ci trasmette, mentre le note di “Sad Waters” sono una visione di malinconia bruciante. Da qui in poi, pathos, turbamento e commozione si susseguono senza sosta. Troppo facile sarebbe citare ancora “Girl in Amber” che ci aveva già fortemente colpito all’uscita di Skeleton Tree e ora sembra magicamente fluttuare nello spazio sconfinato che fa da sfondo alla solitudine preziosa dell’artista: c’è anche la splendida trasformazione subita da “Palaces of Montezuma”, sorprendentemente tratta dal repertorio dei Grinderman come la altrettanto ‘revisionata’ “Man in the Moon”, o l’emozione in gola suscitata da “Waiting for You” che abbiamo conosciuto in Ghosteen. Abbiamo il classico che non stanca mai – “The Mercy Seat” – che Cave esegue con apparente pacatezza ma che si accende di vibrante potenza e l’intensità drammatica di “Jubilee Street”; non manca poi l’inedito dal testo importante, “Euthanasia” e il tormento represso a malapena in “Higgs Boson Blues”: ogni pezzo viene come nuovamente rivelato e grande è l’emozione nell’ascoltarlo ancora e ancora. Così, passando dal trasporto sentimentale di “Into My Arms” alla malinconia evocativa di “Black Hair” si giunge ad una conclusione sontuosa: “Galleon Ship”, un altro dei brani chiave di Ghosteen, dilaga letteralmente, inondando di note struggenti uno scenario destinato a divenire memorabile, come molti connessi alla musica di Nick Cave, e ponendo il suggello finale ad un evento bellissimo, imperdibile per i fan come per i neofiti.
Lascia un commento