È uscito da poco il nuovo lavoro degli Schröttersburg, con sette brani inediti e, stavolta, non ci siamo fatti cogliere impreparati: Dalet è un album impegnativo, sia sul piano dei contenuti che su quello prettamente estetico e, rispetto a Melancholia. Dekonstrukcje di cui avevamo parlato di recente, ci consente di fare meglio il punto sulle scelte stilistiche del trio di Płock, divenuto, almeno in Polonia, riferimento di eccellenza per quanto riguarda il postpunk revival. Dalet, con ogni evidenza, resta saldamente ancorato al postpunk nella sua versione più impetuosa, è ricco di influenze ‘industriali’ e le atmosfere che ci racconta sono decisamente cupe e opprimenti, forse anche più del precedente Melancholia del 2018. Il titolo dell’album, poi, altro non è se non la quarta lettera dell’alfabeto ebraico e da qui si comprende come il gruppo intenda prendere posizione rispetto a fatti storici che facilmente oggi si tende a dimenticare e abbia dedicato il disco alle vittime del ghetto di Płock: il clima, quindi, non avrebbe potuto essere che fosco. L’opener, “Keter”, per esempio, esordisce in modalità pulsante per aprire su un oscuro scenario metropolitano lacerato da penetranti note di chitarra: un inizio di tutto rispetto, Subito dopo, “Bar Do”, uscito anche come singolo, propone suoni di lugubre solennità, sui quali la parte vocale spicca quasi fosse un’invocazione, mentre “Perly” rispecchia un mood più aspro e rancoroso che la bellissima chitarra degnamente asseconda; “Portrety” è un omaggio al postpunk più veemente e rabbioso. Lo stile non cambia nella seguente “M67” nella quale, oltre al canto davvero ‘sanguigno’, emergono anche rumorismi di stampo decisamente ‘industriale’ e,  poi, “Czarne Słońce” ‘brilla’ per ritmica e andamento convulsi e ossessivi mentre “W Pokoju Świateł” conclude con una formula più lenta e cadenzata e un paesaggio di intensità drammatica un album che, a nostro avviso, ha tutti i numeri per attirare l’attenzione.