No longer mourn for me non solo rinsalda la comunione di ideali e di approccio all’Arte magnifica che è la musica fra Albireon e Tamar Singer/Zeresh; questa raccolta di nove tracce rappresenta la più efficace narrazione/osservazione dei tempi che a fatica stiamo percorrendo, affidata ad una scrittura scarnificata, ad una esposizione essenziale che visivamente potrebbe venir accostata a vecchie, scolorite, scrostate icone alle quali per secoli i devoti hanno affidato le loro istanze di rinascita, i loro timori, le loro spemi.  

 Una visione comune che trova espressione in uno stile che asciuga la melodia al calore di un sole che vince le brume che lo attanagliano, ove le due anime spiccano, distinte l’una dall’altra solo in apparenza, condivisa con l’etichetta che pone il suo patrocinio. Volendo e dovendo (dovere per rispetto nei confronti di questi Artisti) approfondire, emergono le personalità, le quali però tendono ad una unica soluzione, ad una meta alla quale pervenire dopo un percorso lungo quarantacinque minuti e poco più. Sufficiente a delineare, a rendere chiaro lo scopo. Nove tessere di un unico mosaico, che potremmo anche mescolare, raccogliere una ad una, osservarle con cura e poi redistribuirle. Piccoli particolari rivelatori ovvero tratti che sono netti, “dolorosi”.  L’immersione di Albireon in oscurità abissali mette a nudo l’anima più introversa del complesso arroccato attorno a Borghi, Baja Guarienti e Romagnoli, al quale la Singer offre il supporto della propria voce su due episodi. Ma non v’è da meravigliarsi, l’indole è intatta, è solo la luce che è diversa.  

Prendo ad esempio “A whitered Kingdom”, episodio intimo, personale, ed a questo punto chiedo venia, se espongo il mio sentimento, dichiarandomi pronto ad accogliere le vostre obiezioni: scorgo affinità con “The silent enigma” degli Anathema. L’istessa desolazione, un gravame enorme che pesa sul cuore, sullo spirito, l’accettazione del lutto, il dolore insopprimibile, pelagico. E la fragilità di “The vague” e del brano che dà il titolo all’opera è solo apparente. In realtà vige una forza occulta pronta a palesarsi, che trova in una forma ritualistica di composizione una ulteriore ragione per emergere, lacerare gli oscuri e pesanti nembi che gravano su queste canzoni. Chi le ha scritte, chi le esegue, non importa.  

I bianchi sepolcri  giacciono silenti, terribile e formidabile monito rivolto a chi, per inettitudine o per viltà, volge lo sguardo dall’altra parte. Affrontiamo la Sorte, ma non sfidiamola. I codardi non hanno orgoglio.