Vukovlad. Il signore dei lupi e Il diavolo nel cassetto sono due romanzi di Paolo Maurensig, usciti a dodici anni di distanza l’uno dall’altro, nei quali troviamo come “doppio” animale degli antagonisti il Lupo e la Volpe.
Le due figure maligne, rispettivamente Vukovlad nel romanzo omonimo e Fuchs ne Il diavolo nel cassetto contengono già nel nome un riferimento preciso: nel primo è “vuk”, che nelle lingue slave significa “lupo”; nel secondo, “fuchs”, che in tedesco sta, appunto, per “volpe”.
Vukovlad e Fuchs sono due impersonificazioni del diavolo o, almeno, così vengono presentati dai protagonisti, Emil Ferenczi, sottotenente del plotone esploratori del corpo dei Cacciatori Ungheresi dell’esercito polacco, e padre Cornelius, uno strano prete, parente letterario, insieme al suo parroco, padre Cristoforo, dell’abate Donissan (Sotto il sole di Satana, 1926) e dello spretato Dufréty (Diario di un curato di campagna, 1936) di Georges Bernanos, che viene quasi citato da Maurensig quando Fuchs ricorda a Cornelius che:
(…) quella notte stessa, non riuscendo a prendere sonno, andasti a bussare alla sua porta: sapevi di trovarlo ancora sveglio, a lavorare di cesello sulle sue “memorie di un parroco di campagna”, questo il titolo che intendeva dare alle sue sudate carte.
Lupo e Volpe come incarnazioni del Male, dicevamo, e del resto è noto come, al pari della demonizzazione di gatti, gufi e civette, considerati animali stregoneschi, la ripresa della favolistica classica e la cristianizzazione dell’Europa avessero già da secoli introdotto nell’immaginario popolare interpretazioni negative dei due animali, assegnando al lupo e alla volpe connotati diabolici.
Maurensig recupera perciò l’iconografia presente nel folclore, secondo la quale il Lupo simboleggia lo spirito selvaggio, refrattario alle regole, e incarna l’aspetto del diavolo associato alla violenza e alla lussuria (non a caso i bordelli dell’antichità si chiamavano lupanari) mentre la Volpe, pur essendo anch’essa un predatore che vive ai margini della società umana, non si avvale della forza e della ferocia, ma impiega l’astuzia e il raggiro, guadagnandosi la corona di regina dell’avidità, dell’eresia e della disonestà.
Detto ciò, quali sono i peccati, rappresentati in forma animale e umana ai quali vengono esposti i protagonisti nei due romanzi?
In Vukovlad. Il signore dei lupi, i cui richiami alla letteratura gotica e al folclore, in particolare dei popoli slavi, sono evidenti se non, addirittura, citati dall’autore – come nel caso di Stoker e Polidori e delle leggende sui vampiri e i lupi mannari (vukodlak) – il Male si insinua, in maniera lupesca, appunto, attraverso la dimostrazione della forza e il potere della seduzione.
Vukovlad, al secolo Achim von Stau’berg, “margravio di tutta la marca occidentale e padrone assoluto di un territorio che si estendeva fino ai confini con la Germania” è un uomo malvagio, che vive isolato nel suo castello sopra il villaggio di T. (siamo in Polonia, alle pendici dei monti Tatra) e non riconosce né l’autorità dello Stato, né quella della Chiesa.
Anche se i fatti avvengono alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, egli si comporta come un signore feudale di draculesca memoria, con diritto di vita e di morte su tutti, uomini e bestie, abitanti le sue terre.
I popolani si fanno il segno della croce ogni volta che lo nominano e le fanciulle tremano all’idea di attirare la sua attenzione, come, suo malgrado, intuisce anche Ferenczi quando, insieme al capitano del manipolo, Schwartz, incontra il parroco di T.
Dal suo studiolo, il parroco ci permise di ispezionare il resto della canonica, la sagrestia, e l’interno della minuscola chiesa dove, preso un turibolo, ci benedisse. Guardandomi attorno mi accorsi che anche le pareti di quest’ultima erano ricoperte da altri dipinti, offerti come ex voto, i quali spesso, proprio come quello intravisto nello studio, riportavano la figura di san Michele a cavallo nell’atto di infilzare la bestia, ed in alcuni persino di sollevarla trionfalmente in aria. In tutti questi quadretti, però, nell’angolo in basso a destra, era raffigurata una giovane donna, ogni volta diversa, inginocchiata in preghiera. Mi chiesi che cosa significassero quegli ex voto. Quelle ragazze a quale pericolo erano scampate?
Il parroco parla di un orso, o di un lupo gigantesco, dicendo che nessuna arma terrena è in grado di neutralizzare il mostro ma Ferenczi, novello Harker in quanto a imprudente scetticismo e ottusa razionalità, si permette di fare una battuta:
“Neppure una pallottola d’argento?” Mi andava di scherzare, ma un’occhiata supplichevole del prete mi raggelò il sorriso sulle labbra.
E anche il capitano Schwartz che, pure, ha già incontrato nelle selve una presenza oscura, la stessa che gli ha ammazzato il cane, si oppone all’entrata in scena dell’elemento soprannaturale.
“Che storia è questa?” sbottò il capitano. “Sta per scoppiare una guerra, abbiamo il nemico alle porte, e voi ci parlate del demonio!”
Così, incuranti degli avvertimenti ricevuti, qualche ora più tardi i due salgono al castello del margravio dove vogliono piazzare una parte dell’artiglieria che, invano, servirà a fermare l’invasione tedesca della Polonia.
Ecco come Ferenczi descrive Vukovlad:
Era di statura gigantesca e indosso aveva un’ampia guarnacca rossa foderata di pelo d’ermellino. I lunghi capelli fulvi incorniciavano un volto accuratamente rasato, dai tratti d’una bellezza ferina.
Di ritorno da una battuta di caccia, Vukovlad accoglie Schwartz e Ferenczi e li invita a unirsi al banchetto appena allestito insieme a una ventina di compagni; i due soldati si sentono a disagio e in pericolo, almeno finché non si rendono conto che la loro divisa, come tutti i simboli di potere, ha messo in soggezione perfino quegli uomini possenti.
Il giorno successivo il margravio conduce i due uomini attraverso i saloni della suo castello ed è a questo punto che, laddove non hanno fatto presa l’ostentazione della forza e la paura, Vukovlad mette in atto la seduzione del potere e della ricchezza.
Schwartz sembra impressionato dai tesori e dalle meraviglie sciorinati dal Signore dei lupi, tanto che i due uomini accettano di fermarsi al castello per la cena e per la notte.
Durante il convivio, al quale partecipa anche l’inquietante madre del margravio, Ferenczi, inebriato dai cibi e dai vini, è sul punto di “abbandonare quasi ogni riserva” nei confronti di Vukovlad.
Intanto, il rito dell’ostentazione continuava, regolato da una sapiente regia: le portate, i vini, i saltimbanchi e i musici che ci allietavano nel corso della cena si susseguivano senza sosta, accompagnati dal sommesso bisbigliare dei commensali, rotto solo dal tintinnio delle posate, o da qualche “ooh” di meraviglia. Ma che cosa si festeggiava?
Ferenczi si accorge della presenza a tavola di una coppia di paesani: lui, un uomo sui quaranta, non tocca cibo e lei, giovane e bella, gli risulta vagamente familiare. La cena prosegue ma, ad un tratto, l’uomo si alza, saluta i commensali e la ragazza e viene accompagnato all’uscita mentre la fanciulla rimane seduta ancora per un po’, finché due cameriere la prelevano e la accompagnano di sopra, dove si trovano le stanze da letto.
Ritiratasi anche la madre del margravio, i due soldati si accomiatano a loro volta per raggiungere le camere. È il preludio di una notte di luna piena e visioni terrificanti dalla quale Ferenczi uscirà vivo ma, forse, irrimediabilmente cambiato.
Ne Il diavolo nel cassetto, romanzo breve che gira intorno a due perni, l’arte dello scrivere e la malattia – anche questi temi comuni, guarda caso, al Diario di Bernanos – il Male si diffonde come un virus all’interno di una piccola comunità montana di pari passo a un’epidemia di rabbia, che colpisce le volpi che vivono nei boschi circostanti.
Anzi, lo scoppio dell’epidemia di rabbia silvestre è un presagio dell’epidemia di rabbia “umana” che, dopo l’arrivo del demoniaco editore di Lucerna Bernhard Fuchs, travolge il tranquillo e sperduto villaggio svizzero dal nome fittizio, Dichtersruhe (Il riposo del poeta), dove tutte, o quasi, le mille anime risultano in partenza affette dalla stessa malattia: la passione per la scrittura.
Così padre Cornelius sul mistero che avvolge il paese:
Per farla breve, grazie anche alla complicità del nuovo direttore delle poste, un giovane irriverente venuto dalla città, che se ne infischiava della privacy, scoprii che a Dichtersruhe tutti scrivevano, o perlomeno che non c’era una sola famiglia che non contasse al suo interno un aspirante scrittore. Incredibile! Erano tutti poeti, novellisti, storici, romanzieri… Non c’era altro luogo al mondo con un numero così alto di volonterosi letterati. E tutti proponevano i propri manoscritti ai grandi editori, i quali immancabilmente li respingevano al mittente. (…) A Dichtersruhe tutti scrivevano di tutto, e non solo i viventi, ma anche i defunti reclamavano i loro diritti. (…) Benché fossero trascorsi due secoli da quando era passato di lì il grande poeta [Goethe], nello spirito era ancora presente come un nume tutelare; tutti si sentivano illuminati dalla luce di una cometa, e investiti da una missione comune.
È, dunque, la malattia della scrittura che, a detta di Cornelius, attira il diavolo anche se, proseguendo nella lettura, capiamo che Fuchs giunge a Dichtersruhe con un obiettivo ben preciso: nelle favole la Volpe è ladra per definizione, poiché entra nei pollai per rubare le uova o, come ne “Il corvo e la volpe” di Esopo, usa astutamente l’arte dell’adulazione per impadronirsi del pezzo di formaggio che il corvo, vanesio, tiene nel becco.
Del Male all’opera, tuttavia, nessuno pare accorgersi: con sommo orrore del prete i paesani, borgomastro e parroco in testa, vedono Fuchs solo come “un eccellentissimo editore” che ha avuto “la bontà di interessarsi” a loro tanto da voler stabilire nel villaggio una filiale della sua casa editrice.
Padre Cornelius, invece, non si fa incantare e lo descrive così:
(…) tutto nella sua persona pecca di eccesso, il suo riso è sgangherato, il gesto è teatrale, i capelli ravviati all’indietro, piuttosto lunghi e untuosi, sono tinti di nero; le labbra purpuree, affilate, con i lati rivolti all’insù a mimare un sorriso perenne; gli incisivi grossi, a forma di scalpello, sono affetti da un vistoso diastema, e la voce, la voce poi, dove sembra celarsi il segreto del suo fascino, è rotonda, impostata, senza asperità, senza picchi, ma basterebbe rallentarne la frequenza con l’ausilio di un nastro magnetico per rilevare un sottofondo di sospiri e lamenti.
Se a ciò aggiungiamo che il prete segnala anche che Fuchs è zoppo (“faceva pensare che avesse una gamba artificiale”. Da notare il rimando al Pinocchio di Collodi – presente pure in Vukovlad. Il signore dei lupi, con il cane di Schwartz, Melampo – dove la Volpe è zoppa per simboleggiare l’incapacità a mantenere un percorso moralmente stabile), i connotati diabolici ci sono tutti.
Inoltre, ecco cosa dice il sacerdote a proposito dei sentimenti sui quali Fuchs fa leva per insinuarsi nella comunità e raggiungere il proprio scopo:
A pensarci bene, qual è il grimaldello capace di forzare l’animo di un aspirante scrittore che le ha tentate tutte senza risultato? Bisogna fare leva sulla vanità, riconoscere in lui il genio incompreso, presentarsi come un taumaturgo capace di proporre rimedi, di ridare speranze, di ricostruire illusioni…
Ed è proprio così che Fuchs agisce nel villaggio, almeno finché non ci scappa il primo morto e gli eventi precipitano in una ridda di violenza nella quale ritornano gli echi di un’altra peste, quella evocata da Albert Camus.
Paolo Maurensig (Gorizia, 26 marzo 1943 – Udine, 29 maggio 2021) è stato un romanziere italiano. Esordì nel 1993 con La variante di Lüneburg (Adelphi) a cui fece seguito Canone inverso (Mondadori, 1996), dal quale fu tratto l’omonimo film per la regia di Ricky Tognazzi (2000). Autore di una ventina di romanzi, ricevette numerosi riconoscimenti. Vukovlad, il signore dei lupi uscì per Mondadori nel 2006, Il diavolo nel cassetto per Einaudi nel 2018.