Esce un nuovo disco di Byronic Sex & Exile, le radici ‘gotiche’ si risvegliano e un palpito dark ci attraversa: il progetto di Joel Heyes non propone nulla che la maggior parte di noi non conosca già molto bene, ma ciò che produce, forse perché caratterizzato dalla più totale genuinità e del tutto privo di maniera, continua a provocarci il batticuore. Abbiamo sperimentato la sensazione con Cu Foc e accade lo stesso con questo Unrepentant Thunder, in cui ritroviamo la medesima ricetta: chitarra cupissima, ritmica sostenuta, atmosfere sanguigne e decadenti dove domina un romanticismo fosco ma seducente. Come era stato il caso di Cu Foc, anche Unrepentant Thunder è una sorta di concept i cui temi ruotano intorno alla partecipazione di Byron alla lotta per l’indipendenza greca, con le conseguenze che portarono alla morte il grande poeta inglese: nulla di più romantico, quindi, in cui ‘inzuppare’ il pane. Rispetto all’album dedicato alla Romania, qui si percepisce meno ‘pomposità’ ma più passione e, forse, più emozione e non mancano momenti struggenti che suscitano forte coinvolgimento. La prima traccia, “Die For Greece” esordisce con una ‘perturbazione’ che promette oscurità e incubi e confluisce poi in una vibrante manifestazione di voci e suoni guidata da un’impetuosa chitarra. Subito dopo, “Destiny” è un ‘inno’ gotico vigoroso e trascinante mentre “Until Freedom Dies” propone all’inizio tastiere solenni per introdurre ritmica incalzante e chitarra tumultuosa e la bellissima “Deicide Is Painless”, costruita su poche, semplici note di piano, effonde pathos a volontà che il canto intenso di Joel Heyes sa interpretare magistralmente. Tocca quindi ad un intervallo poetico-riflessivo, la lettura della lirica Μιλώ (“I Speak”) del poeta greco Anagnostakis, resa nota in passato da Theodorakis che ne trasse una versione musicale, seguita da “114”, pezzo che sembra più che altro pensato per alleggerire l’atmosfera; poco più avanti, sorprende l’introduzione al piano di “Last Letter To Mao” che, in efficace contrasto con le tonalità profonde del canto, definisce l’intera impostazione del brano. Ma uno degli apici emotivi dell’album è “’A Boy Called Jihad”, un perfetto esemplare di musica oscura, a cominciare dai tuoni iniziali per proseguire con la tetra ripetizione del lineare motivo: il pathos lievita strada facendo e conduce alla disperazione nel finale, prima che il ‘maltempo’ definitivamente prevalga; con la title track emerge un mood meno spietato e più melodico, che si insinua poi anche nella seguente “Sweet Prince”, caratterizzata da passaggi sognanti e fluide note di chitarra ma, poco dopo, il lugubre piano e la voce carica di angoscia di “Requiem” riportano lo scenario alla tenebra abituale. Infine, “Castle In My Mind”, continuando con il piano sintonizzato sullo stesso plumbeo stato d’animo, conclude in stile gotico funereo un disco che consigliamo incondizionatamente.
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