Che il numero dieci non rappresenti “solo” il raggiungimento di un traguardo che, in ambito discografico, per molti rappresenta una chimera, lo dettaglia il band-leader Steve Sylvester con l’accuratezza che gli appartiene. Per quanto riguarda i contenuti musicali, sicuramente trattasi di un lavoro che farà bella presenza al cospetto di una discografia che, per alcune pubblicazioni a nome Death SS, s’ammanta dell’aura del mito. Costringendo così gli Artisti ad un reiterato confronto con il passato, il che comporta una assunzione di responsabilità ma pure il conforto che evidentemente le pagine scritte non sono destinate a carta straccia. Poi quanto al succitato mito concorra la presenza scenica, il concorso teatrale, fa parte del ruolo. Ma andremmo a riprendere concetti già noti, venendo a noia, dei Death SS coloro che leggono Ver Sacrum (e non solo) dovrebbero conoscere sia i peccati che le glorie. 

Ten è un disco che evidenzia la coesione di un insieme che fa perno, e non potrebbe essere altrimenti, su Sylvester, e che è dotato di qualità esecutive ineccepibili e di una visione del genere ampia. L’apporto delle tastiere operate dal dotato Freddy Delirio non si limita al contorno assumendo sovente una posizione apicale: il quadro sonoro complessivo risulta così più denso, ricco, empiendo ogni spazio. L’incessante lavorio delle chitarre di Al DeNoble lascia trasparire spunti ed ispirazioni sorprendenti, se si pone attenzione ai dettagli di “Rebel God”, non sfuggirà ai più smaliziati un fraseggio che si ripete che, sarà “delirio” (ehm…) dell’anziano scribacchino, ricorda tanto uno dei cardini sui quali poggia tutt’oggi quel che resta del death-rock (andate voi a confermare o meno, anche il basso di Glenn Strange ci mette il suo, di zolfo). Canzone per inciso che si apre ad una coralità maestosa, un inno sfrenato che giuoca abilmente con il titolo del pezzo. Ed ho citato metà della sezione ritmica, l’altra presidiata da Mark Lazarus, essi sono le fondamenta del suono-Death SS, e dell’intiero Ten. 

E delle sue canzoni, e della visione del genere ampia, sottolineo vieppiù con forza. Il mestiere, l’esperienza, la curiosità. Ecco l’origine di episodi maestosi come “Temple of the rain”, introdotta da Delirio eppoi sviluppata dal complesso nell’espressione massima delle sue potenzialità. Il grande rock, quello che si magnifica, quello che si specchia in tutta la sua forza, senza timore di apparire scontato o di auto-celebrarsi fino allo sfinimento. Perché questo è lo spettacolo che il pubblico accorso pretende, la gloria di Roma celebrata nei suoi massimi circhi. I The Cult ammaliati dalle sirene americane e vocalizzi che rimandano ad una altra “Temple…”, la versione del 1992 del classicissimo eldritchiano toccato dalla grazia di Ofra Haza (ma anche l’ingiustamente mortificato “Vision thing” offre il suo contributo). Incastri perfetti in un crescendo controllato che da “The black plague” conduce all’oscura e cooperiana “Lucifer”, l’epilogo. Dieci canzoni, dieci come il titolo, dieci chiodi rugginosi che suggellano una bara che conserva un corpo in apparente stato di disfacimento. “Zora” e “Suspiria” (il primo non può non ricordare l’insieme omonimo, il secondo è introdotto e guidato dalle tastiere) si saldano con l’immaginazione, con il bianco e nero di tavole sfocate. L’orrore evocato e sapientemente dosato. “Heretics” lascia il campo aperto all’interpretazione sofferta di Sylvester, ballata funerea condotta tra le paludi della Louisiana, “The world is doomed” si concede ad una apparente leggerezza, una concessione al classicismo metal, come “Ride the Dragon” che fugge via forsennata; “Under the sun” è anch’essa prova collettiva che smorza la propria furia e che si chiude tra i contrasti procurati dal succedersi di vocalizzi muliebri e virili.