Quando riesco a trovare musica interessante e scoprire tag che non mi sarei mai immaginato potessi ritrovarmi a scoprire in una pagina Bandcamp, la cosa non può che farmi sentire ancora vivo. C’è sempre speranza che la fine dei miei giorni vedano ricordato anche qualcosa che magari non finisce nei festival nazionali nella città dei fiori e che comunque suona come dovrebbe.
I CULTRO sono un interessante progetto post tante cose, i tag li trovate sulla loro pagina Bandcamp, ma con una forte connotazione oscura che li avvicina a quella stessa sensibilità delle persone che tendono a identificarsi in queste pagine. Con il bassista nel secolo ‘scorso’ avevamo avuto un basso e una drum machine in comune per le registrazione di un progetto chiamato Irma Vep. Ci si conosce da una vita e ci si perde di vista da mezza nell’impossibilità di stare appresso a tutto. E quando ci si ritrova per caso tra i commenti su una pagina social di uno speciale sulla scena underground nostrana, ritrovi anche il tempo di scoprire cos’altro è successo in quella mezza vita che è andata avanti per tutti.
Il duo, che non è sempre stato un duo (nei primi due lavori era presente anche un batterista), è composto da Alessandro Nanna al basso e voce e Marco Riccardi alla chitarra, tastiere, programmazione della batteria e saz, quella chitarra saracena dal suono orientale che conferisce un tocco mistico alle atmosfere evocate dalla musica. La band è nata a Roma nell’inverno 2014 con all’attivo l’omonimo EP di debutto del 2015 composto da tre tracce (“Sands”, “Atar”, “On How to Wake the Stone”) a cui è seguito il secondo album Horizon del 2017 e composto da quattro tracce (“Intro”, “Our Drained Wells”, “Morituri”, “Horizon”).
“Sin dall’inizio l’intento è stato quello di coniugare l’abrasività del post-metal con le atmosfere di un folk oscuro e ritualistico, con un dualismo tematico in cui la metafora mitologica si traspone sull’analisi della condizione umana contemporanea…” precisano i CULTRO.
Se proprio dovessi descriverli a parole in questo ventunesimo secolo in cui fai prima ad ascoltare un video o una canzone in streaming, il tipo di sonorità si accostano più che bene a My Dying Bride, Godflesh, King Crimson e Lycia (che compaiono come featuring nel brano “Atlas” a proposito). Per il resto Spotify e DistroKid sono lì ad aiutare tutta la curiosità di questo mondo e quell’altro.
Un post-metal oscuro come la notte con contaminazioni sludge dalle sfumature rituali. Un dark ambient metallico dalle venature doom se può aiutare a capire la musica prima di ascoltarla. Anche la sonorizzazione a un racconto di Gustav Meyrink o Thomas Ligotti da ascoltare dopo la mezzanotte se preferite.
Il nuovo album, dal titolo Phlegethon, in parte riassume tutte le precedenti esperienze della band in un concept album di cinque tracce basato sul tema “sentenza/condanna” e “punizione”, da cui ogni brano prende il titolo.
Usando le loro stesse parole: “…il tema dell’album è incentrato sul concetto di ‘pena’: cinque diverse incarnazioni del castigo“.
In “Golem”, la prima traccia, troviamo la creatura figlia della vanità umana a cui, fuggita al controllo del suo creatore, viene inflitta la morte trasformando però lo stesso condannato nella condanna del suo giudice, che viene travolto dalla mole della creatura morente.
Nella seconda traccia troviamo la figura di “Medusa”, che da sempre rappresenta un’allegoria del male e del brutto: ma se “la bellezza è negli occhi di chi guarda” potrebbe esserlo anche il brutto, e di conseguenza il male. Non è il potere negli occhi della Medusa che ci rende pietra, ma il riconoscere il proprio sé riflesso in essi.
La title track dell’album, “Phegethon”, la terza traccia, vede come unica protagonista la chitarra acustica, in un arpeggio volto a evocare la scena dantesca della visione del fiume di fuoco che circonda l’Erebo; la parte più tenebrosa dell’Ade.
In “Atlas”, la quarta traccia, ritroviamo il simbolo della condanna dell’uomo a trascinare il peso della sua stessa esistenza, la cui liberazione può avvenire solo con la negazione di sé stessi, rendendolo di fatto schiavo o non esistente. Il pezzo vede la collaborazione di Mike Van Portfleet e Tara Vanflower della storica band Lycia alle voci.
In “Banished”, la quinta traccia, l’album si conclude con un riferimento al sacrificio: non quello di Abele, ma quello di Caino, succube di un dio prima sanguinario, poi ipocrita e vendicativo. La terra genera l’uomo, l’uomo genera Dio, Dio genera la terra: l’uomo è Dio.”
La musica è caratterizzata dalla voce siderale due piedi sottoterra e dai riff graffianti e arpeggi lontani della chitarra ‘grezza’ che si muovono a loro agio nel panorama spettrale che riescono a evocare. Il basso, ‘pesante’ come un macigno, è spesso distorto sopra i tappeti di tastiere quasi rituali.
La mia canzone preferita naturalmente è quella con Mike Vanportfleet e Tara Vanflower dei Lycia alle voci. Chissà perché? Un pugno sferrato nell’oscurità in un mondo parallelo dove la musica dei Lycia esce contaminata con gli echi psichedelici dei Pink Floyd e il coro di Tara apre un passaggio verso un’altra dimensione. Quel tipo di ritmo incalzante che ti fa sbattere la testa come a un concerto dei Cathedral tanto per capirci.
Quando componi una canzone e ci senti tutta l’influenza di un gruppo che hai sempre ascoltato e decidi di tentare la sorte condividendo quelle sensazioni con quelle stesse persone, e subito dopo, senza che te lo aspetti, ti confermano che anche a loro farebbe piacere condividere quelle sensazioni, arrivi a quell’alchimia che non avresti mai sperato di raggiungere.
E tutto funziona come per magia.
La traccia che chiude l’album è un viaggio contaminato dal progressive e musica orientale. Psichedelica al quadrato con quel pizzico incalzante di doom che sembra risuonare da un altra dimensione. E io che pensavo che ‘la Morte venisse solo dallo Spazio’. A ‘Novembre’ poi.
Oh… e già che ci siete, potrebbe interessarvi anche il loro progetto collaterale come Valuska dei quali sono disponibili un singolo in digitale che doveva far parte di un EP e anche diversi video sul loro canale.
Una nota per la produzione della musica è di dovere.
Non sono tanti i musicisti che riescono a registrare e gestire anche la fase finale del mastering nel loro stesso studio. Il disco è stato registrato e mixato dal chitarrista Marco Riccardi nel loro Jupiter Giant Studio di Roma tra Marzo e Giugno 2021. E qui il fonico ha davvero fatto un bel lavoro. La potenza per competere con le produzioni negli studi più blasonati c’è tutta.
Al momento il disco, oltre che fisicamente presso l’etichetta, Eibon Records (numero di catalogo: CLT110), è disponibile in digitale sulla pagina del gruppo e include anche i rimanenti due brani dell’album completo acquistando il CD.