Un chant d’amour è lo splendido, consentitemelo Vi prego, gesto d’amore compiuto da Final Muzik nei confronti della Sua musica. In tre lustri abbondanti di attività (traguardo che pochi possono vantare), Gianfranco Santoro e Cristiano Deison hanno tenuto fede ai solidi principi dell’etica, condivisa con la passione, affidando il loro catalogo a pubblicazioni selezionate gratificate dalla qualità. Anche a costo di rinunciare a maggiori esposizioni, ma a questo non hanno mai badato. E non solo perché li conosco personalmente, anzi, proprio per questo sottoscrivo e rafforzo quanto appena esposto.
Dobbiamo tener conto, ai fini di una approfondita comprensione di quest’Opera, del contesto nel quale operava ed al quale si alimentava il progetto-Borghesia, ovvero la Jugoslavia degli anni Ottanta, un passo prima dal disfacimento della Federazione conseguente alla dipartita del Maresciallo Tito, di colui, bene o male non sta a me dirimerlo, fu il collante che tenne uniti Popoli e territori diversi. Per chi come noi visse quegli anni a ridosso del confine, Un chant d’amour s’appropria di un significato “altro”, non necessariamente più “alto”, sicuramente unico. Perché se muoversi in ambito “alternativo” in quegli anni anche in Italia costituiva una scelta “avventurosa”, immaginiamolo (se possibile) in Jugoslavia.
Una cortina più permeabile che altrove, certo. La si attraversava spesso, e sempre per noi bambini con un misto di curiosità ed anche di timore (le guardie che ci osservavano, con il fucile in mano, chissà di dove venivano, quei ragazzi che avevano pochi anni più di noi), poi con l’avanzare dell’età, si trasformò un disbrigo di pratica e poco più, si attendeva in coda (anche ore…), si esibiva il lasciapassare, ci si inoltrava di pochi chilometri per raggiungere il primo distributore di benzina, fare il pieno, acquistare carne, sigarette, e rientrare… Ma il confine è sempre rimasto lì. Anche dopo la caduta rovinosa. Invisibile ed immutabile. Anche dopo la dissoluzione. Non ce lo dimenticheremo mai.
Un primo maggio ante ‘76 (per noi Friulani esiste un “prima” ed un “dopo” ‘76, ed il punk qui non c’entra). Usciamo a Stupizza, su fino a Caporetto, poi giù seguendo la valle del Soča/Isonzo fino a Nova Gorica, il valico di Gorizia ed avventura conclusa. I palazzoni dell’edilizia popolare di Stato, il carro trainato dal cavallo, le bandiere con i colori panslavi e la stella rossa che sventolavano fiere all’ingresso delle scuole, dei municipi. Un “altro” (ancora) mondo. Per pochi chilometri in più. Ma c’era fermento, in quella piccola Repubblica, ed i Borghesia come i Laibach erano lì a ricordarcelo.
Una cortina perforata dalla voce e dalle immagini di RadioTeleCapodistria, “anomalia” tipicamente jugoslavo/slovena, un organo di informazione che seppe e poté mantenere una libertà di azione impensabile altrove. E che ci rimandava estratti da città e luoghi quasi mitici: le partite di calcio e di basket il sabato pomeriggio, le cronache da Titograd, da Nis, da Kruševac, chissà dov’erano, eppure li “sentivamo” più vicini, ad un passo da noi, quei paesoni con le loro architetture severe dalle linee dritte. E la musica. Ne arrivò tanta, da RadioTeleCapodistria, anche video.
E’ new-wave minimale, scarnificata, edificata facendo ricorso ad una strumentazione spartana e restituitaci in tutta la sua tragica compostezza. Intreccio essenziale che pare lasciar intravedere oltre, un sudario finissimo che pare stendersi sulle immagini. “Un chant d’amour” venne diretto da Jean Genet, che ne redasse la sceneggiatura, nel 1950 e a causa dei suoi contenuti fu bandito fino alla metà degli anni Settanta. Una pellicola che rappresentava l’amore omosessuale, spinto fino agli estremi, ambientato in un carcere. Figuriamoci, un argomento che tutt’ora solleverebbe l’iroso maglio dei benpensanti. Dario Seraval ed Ado Ivancic ne composero l’ideale colonna sonora nel 1986, destinandola ad una cassetta riesumata, ripulita e rieditata l’anno scorso (contiene anche degli estratti da due composizioni del chitarrista Sašo “Bekko” Benko), ed il risultato è questo Un chant d’amour. L’anno della registrazione i Borghesia già godevano di un apprezzamento che fece guadagnare loro l’attenzione della Play It Again Sam belga, la quale li accolse nel suo grembo fornendo loro l’appoggio per una visibilità successivamente acquisita e meritata, segnata da pubblicazione e tour. Ma quello che conta, ora, è il disco, è la musica di Un chant d’amour. Quel brivido d’inquietudine che vi farà provare, mentre i suoni/rumori/voci s’espanderanno tra le mura domestiche, costituirà l’attestazione più evidente che i Borghesia, nel 1986, in quella Ljublijana già pronta ad accogliere un futuro che in quei mesi veniva abbozzato, compiendo un atto di sconsiderato coraggio, avevano ben chiaro l’obiettivo da raggiungere. Anche a costo di attendere anni. Perché in fondo, pur troppo, non tutto è cambiato da allora. E nemmeno dal 1950.