Attivi dal 2014, gli italiani Messa hanno pubblicato quest’anno il terzo album Close. La formula dei quattro – Sara, Mark, Alberto e Mistyr – è stata ben definita da loro stessi: ‘scarlet doom’, a dimostrazione che il sound della band va oltre i canoni convenzionali del doom sfruttando l’esperienza e il differente contributo dei componenti, per sviluppare uno stile assai eterogeneo e particolare ove il dark convive con il metal, con il ‘gotico’, con il folk e le atmosfere sono estremamente ricche di suggestioni. Non mancano, poi, l’inclinazione all’occulto e l’elemento mistico e rituale che, del resto, si rispecchia anche nella scelta del monicker: diciamo che i Messa rappresentano un tratto di originalità in un contesto ove, forse, non ce lo saremmo aspettato. Close riflette la pluralità di cui abbiamo detto, con soluzioni sonore variegate e molto intriganti. L’opener “Suspended” cattura già dalle prime, sinistre note di piano che lascerebbero quasi presagire un paesaggio intimista e funereo: l’impressione deve essere corretta dopo qualche minuto di andamento cadenzato ben dominato dalla voce di Sara – davvero notevole, va detto! – e nella miscela intervengono chitarrone metal e altre sorprendenti variazioni, che hanno fatto rilevare a tanti una sotterranea ‘vena’ jazz. Subito dopo, “Dark Horse” propone una ritmica incalzante ma, come è stato osservato, lo stile sembra avvicinarsi più al postpunk che al metal, nonostante l’irruenza non manchi – soprattutto nella seconda parte – con una solennità di fondo che, insieme al canto più che espressivo, conferisce allo scenario tinte drammatiche; “Orphalese” introduce una vibrazione ulteriore per l’uso inatteso di strumenti a fiato, l’andamento rallenta a favore di un’atmosfera vagamente misticheggiante dal sapore etnico e Sara regala una delle sue prestazioni migliori, mentre “Rubedo” è uno degli episodi più forti e ricchi di pathos, grazie all’abbinamento di rock muscolare e straordinarie tonalità vocali. Troviamo quindi “Hollow”, poco più di un minuto di note di nuovo in modalità etnica e, poi, “Pilgrim”, ove si percepisce la medesima ispirazione tanto da far pensare, più che al doom metal, a un’incursione nel territorio dei Dead Can Dance prima che, dopo circa tre minuti, la chitarra non arrivi a ‘scompaginare’ brillantemente la scena: la stessa eterogeneità, in effetti, che si evidenzia nella lunga “O=2”, ove le derive ‘orientaleggianti’ si uniscono a una vaga ‘pulsione’ prog, a rivelare una spiritualità moderna quanto oscura e intima. Dei rimanenti brani, ci limitiamo a menzionare la conclusiva “Serving Him”, forse il pezzo più ‘spettacolare’ per l’imponenza dei suoni, che chiude nel segno del metal e con impeto travolgente un disco che merita ogni apprezzamento.
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