Luca Frazzi, autorevole firma di Rumore, a proposito di post punk (non ha utilizzato il trattino), scrive sul numero di settembre (riferimento: recensione di Paper thin dei Green/Blue): “…il loro tributo alla tradizione post punk (di questo si tratta, nonostante il termine abusatissimo abbia perso di significato)…”. 

…nonostante il termine abusatissimo abbia perso di significato… 

Non è l’unico a condividere quest’idea, sicuramente il suo è un parere autorevole. Che faccio mio. 

In ambito musicale non-pop (peraltro esiste un pop nobilissimo e lo sappiamo bene), necessario è definire il contesto. 

Non siamo a Leeds/Manchester/Sheffield a cavallo tra settanta ed ottanta, non è che ci alziamo dal letto, messi non proprio bene e con l’idea vaga di come arrivare a fine giornata, con una possibile variante al nerissimo quotidiano che può venirci fornita dalle esequie di qualche amica/o che non ci arriverà, al tramonto offuscato dai fumi delle ciminiere. Dai che a tutti noi non va poi così male, le bollette, il mutuo, le rate dell’automobile, ma colazione/pranzo/cena le mettiamo ancora assieme.  

Il futuro poi, andrà come deve andare, se siamo ancora dei post-punkers dentro non può mica farci paura. O no? 

Ed allora ha ancora senso parlare/scrivere di post-punk? Sì se ci limitiamo ad una forma espositiva. Se ciò che chiediamo è una manciata di minuti di piacere.  

L.D.V. formerly known as La Dolce Vita pubblicano un nuovo singolo. Sacrifice. Sacrificio. Una vera novità stavolta, non come la riproposizione della hit “Mistery boy” di qualche mese fa. Sacrifice è un vero inedito. E’ l’ennesimo passo di un complesso che, al netto di qualche scricchiolio della line-up, prosegue imperterrito nel cammino intrapreso anni or sono. E che finalmente riceve meritati riscontri (anche se delimitati ad una platea ristretta che, presumibilmente, rimarrà tale), riconoscimento di una onestà attitudinale che pochi possiedono. Nessuna posa, nessun atteggiamento da rockstar di paese, umiltà e stile 

Lo stile – L.D.V. 

L’eleganza insita (dai, fare i finti straccioni alternativi e vestirsi a c****dicane non è mica bello, un po’ di dignità, che diamine!), Sebastianutti mistery boy girava in giacca e cravatta in tempi non sospetti (quando non venivano tollerate variazioni al nero), e di questo gli darò eterno merito. Perché le canzoni de L.D.V. aka La Dolce Vita sono dei perfetti tagli sartoriali, cuciti con la cura di chi li crea, di chi da un’intuizione trae un’opera, traducendola nel presente caso di un brano musicale in emozioni. In primis per chi le esegue, poi ovviamente per chi le ascolta. 

La componente emotiva. L’interpretazione trascinante, quell’approccio veemente da tutto ed ora, pochi minuti che bruciano in fretta ed allora bisogna sbrigarsi, correre via veloci, sintetizzare. In Sacrifice (brano che entrerà di diritto tra i piccoli classici del gruppo e che dal vivo troverà immediata collocazione in scaletta) ci sono tutti, reiterati, gli elementi che rendono riconoscibile lo stile-L.D.V., che ovviamente aderisce a canoni estetici ben definiti ai quali il quartetto non rinunzia, apportando minime variazioni al tema acquisito. La chitarra solista affilatissima che taglia l’aria come un soffio freddo sul volto, la ritmica instancabile nell’intessere trame solide a sostegno della prima, il basso che si ritaglia porzioni importanti, la batteria che emana energia pura, e qui Signori miei, siamo a livelli superiori. L’entrata delle tastiere (mai così puntuali, segno che la loro funzione è ormai acquisita, non fu sempre così) rende l’amalgama ancor più densa, arricchisce la struttura.  

Il gruppo innanzi tutto, il collettivo prima dei singoli. L’etica punk (e mod). L’interpretazione di Sebastianutti è al solito coinvolgente, autobiografica, egli canta quello che prova dentro, è evidente, la sua voce appare però quasi costretta, trattenuta, ma è forse una scelta di produzione, peraltro impeccabile nel far risaltare ogni singolo strumento. L’urgenza del post-punk è tutta concentrata in questi quattrominutiedunsecondonetti ove viene ribadita l’estetica asciutta di Jam, Buzzcocks/Magazine, primissimi Simple Minds e diecine di altri, l’utopia visionaria di una generazione che mai si sarebbe immaginata di venir celebrata ancora, ad otto lustri e frazioni di essi di distanza.  

E se Sacrifice si rivolge ad un pubblico che cavalca (se non li ha già raggiunti) verso i sessanta, non importa. Non ce ne siamo nemmeno accorti, abbiamo già bruciato l’attimo, ma siamo ancora qui.  

Sacrifice è il suono di una generazione. Non la sua colonna sonora. Il suono. 

“Sacrifice/I’m getting over/Sign of the times”