Giorni addietro, lasciando scivolare la lunga processione di post che si susseguono senza soluzione di continuità intasando la pagina personale di FB (o forse sono già trascorse diverse settimane? Probabile), m’imbattei in uno che citava l’endorsement che James Newell Osterberg Jr. palesò nei confronti di un giuovine complesso nazionale piuttosto in voga. Ne seguiva una sequela di commenti, i più improntati a disgusto e disapprovazione. Del genere: “Ma come, IP è ormai finito, se si riduce così”. “Lo fa per raccattare le ultime briciole di fama” (?) e via di seguito. 

Chi impavido s’applicava con cotanto zelo nel giudicare una persona che conosce solo, stavolta sì, “di fama” taceva (scientemente?) che: 

primo: i coetanei del Signore in questione trascorrono parte delle loro giornate in fila al supermercato, dal medico, in farmacia, in posta (sovente sottraendo tempo a chi deve farlo perché costretto dal lavoro). 

secondo: la maggior parte di coetanei del Signor JNO Jr. aka Iggy Pop se ne sono già andati, dopo una vita che in fatto di eccessi forse segnava al massimo qualche uscita di troppo al bar sotto casa, e l’altra parte denunzia evidenti problemi di salute, destinati ad acuirsi con l’avanzare degli anni. Ne residua una quota marginale di fortunati, che sicuramente dei pareri altrui non se ne curano. 

Terzo: per i giudicanti in questione il futuro riserverà probabilmente la sorte del punto due. 

Ian Astbury è del 1962. Billy Duffy del 1961. 

Non sono dei “vecchi”. Fanno ancora quel che a loro piace (scrivono canzoni, suonano, se ne vanno a spasso per il mondo). Possono farlo ancora finché lo vorranno. Al limite, mica siamo tenuti a comprarli tutti, i dischi dei The Cult. 

Già, The Cult. Il Culto. Se la sono andata a cercare? Ammettiamolo, a parte la parentesi che racchiude pressappoco un lustro o poco meno, famosissimi a livello planetario non lo sono mai stati. Nemmeno strettamente di culto, ma poco cambia, nel complesso. 

Ci fu chi li condannò inappellabilmente già nel 1985. Già l’aver cassato “Death” dal patronimico (“Southern Death”… era già mitologia) rappresentò quasi un affronto, ma abbandonare tutto il corollario di femori e teschi, l’autentico ossario sul quale venne sacrificato “Dreamtime”, quello no. Quando irruppero i video (era la stagione d’oro dei clip!) di “She sells sanctuary”, di “Rain”, di “Revolution” le schiere dei devoti (al Culto) andarono in subbuglio, con conseguente diserzione di buona parte di essi. Citavano i Led Zeppelin? Inammissibile (ma quanti conoscevano davvero i LZ?). Le mise colorate, i filmati psichedelici… Poi venne “Electric”, le tibie vennero ricuperate, ma con altro scopo. Erano quelle dei Grateful Dead! Ossignor, questi fracassoni non intendevano redimersi, e già studiavano le prossime mosse, “Sonic Temple” era pronto per la consacrazione. 

Non durò a lungo, vennero i tempi di “Ceremony” e “The Cult”, con solo Astbury/Duffy a detenere il marchio, era già così, lo sarebbe stato per sempre. La separazione, poi “Born into this” (2007, con l’ex Sorum che poi andò a paga nei G’n’R a sedersi alla batteria), sosta fino al 2012, “Choice of weapon”, e nel 2016 “Hidden City”. Due capitoli fondamentali per comprendere Under the midnight sun. 

Che conta otto canzoni per trentacinqueminutiesettesecondi di hard rock moderno quel che basta, soprattutto considerando il passato degli autori, a tratti crepuscolare (la title-track), mai troppo esuberante. Gli anni passano, un altro “Love”, ma nemmeno un altro “Electric” non avrebbero senso, se non per una sparuta legione di irriducibili. Viene pubblicato per una etichetta misconosciuta che dichiara però ottime intenzioni. Li ha scritturati per esibire nel roster un nome pesante, o perché ci crede? Dovremmo chiederlo a loro, noi limitiamoci ad ascoltare questi nuovi brani. Lo sanno bene che il recinto delle classifiche di vendita per loro è sigillato, e per favore non tiriamo fuori la trita argomentazione riguardo la necessità di implementare il fondo pensione, un po’ di rispetto, che diamine! che ci hanno tenuto compagnia per anni, e che in fondo “Rain” l’avevamo inserita in tutte le cassette-compilation possibili.  

L’intesa fra i due è ancora funzionale alla riuscita di episodi che non saranno trascendentali (“Mirror”), ma che si lasciano ascoltare con piacere. “A cut inside” ricupera la verve degli anni migliori, quelli più ispirati, non cede però alla nostalgia crescendo di tono, accompagnata dalla sezione ritmica nuova di zecca, Jones/Matthews. Per me la migliore in assoluto fu quella “provvisoria/forzata” Stewart/Brzezicki, seguita da Tempesta/Wyse, ma è un parere personalissimo. Mancano gli anthem d’impatto, si prosegue su cadenze ragionate, con la chitarra che si prende, sempre, i suoi spazi. E non possiamo pretendere che la voce rimanga intatta. Ma Astbury sa come gestirsi. Poi “Give me mercy” con relativo video, l’entrata vigorosa che presto si spezza, dura un attimo, poi i muscoli si tendono ancora, in un saliscendi che ci guida nel cuore della notte, quella della nostra anima, quella che ci mette a confronto con noi stessi, con le nostre azioni. Fate come volete, questa è l’epica del rock, non ci si può sottrarre nemmeno alla sua retorica, è così e sempre lo sarà. “Outer Heaven” è perfino ovvia, scolpita d’un classicismo che essi possono permettersi d’evocare, caricando il motivo di tutta l’opulenza sonora che merita un titolo così. “Knife through butterfly heart” ve l’aspettereste firmata da uno come Wayne Hussey ed inserita su “Children”, e la parentela è palese, qui potete pure additarli come dinosauri, ascoltate come Astbury si impadronisce della scena, seguito presto da Duffy eppoi da tutto l’insieme, la forza corale della più scontata delle ballate, con il gruppo che sa fermarsi un passo prima di scivolare nel baratro dell’auto-citazione. “Impermanence” anch’essa non forza, adattandosi ad un tema che caratterizza tutto il disco, fino alla title-track, titolo ispirato ad Astbury dalla vista del sole che non cala mai, l’estate nordica, ancora anni fa. Perché dopo una certa età i ricordi fanno ancor più presa, credetemi è così. 

Il numero romano lo dichiara. Under the midnight sun è il disco numero undici dei Cult. Che vennero costituiti con atto formale nel 1983. E che sono ancora qui. Con merito, aggiungo.  

I giovani non ascoltano più questa musica. 

Siamo invecchiati con loro. 

Perché rinunziare al piacere di fare quello che ci pare? 

“La parola rimpianto non esiste nel mio vocabolario, rimorso invece…” (cit. di chi non posso rivelare).