I Virgin Prunes sono state una delle prime cose prese nel mio periodo di svolta punk e new wave ‘alternativa’. In teoria erano stati il mio secondo disco comprato dopo quello del “primo gruppo del cantante dei PIL”… Lo stesso giorno quindi, passando dal sesto al settimo cielo, ero tornato a casa con un disco con la copertina gialla dei Sex Pistols e uno con la copertina bianca dei Virgin Prunes che non avevo idea di cosa fosse.

Erano gli anni di Rockerilla e Rockstar Numero Uno e la musica se non te la passavano forse riuscivi anche a ‘leggerla’ per sbaglio. Conoscerla era questione solo di naturale curiosità, amici che ne sapevano più di te e fortuna alla fine. Mi piacevano i disegni delle figure ‘inquietanti’ del retro e la copertina di carta simil-stropicciata che per qualche capriccio dei neuroni avevo associato a qualcosa che c’entrasse con le lettere ritagliate di Jamie Reid.

Mentre le tracce del disco giallo mi avevano fatto rimbalzare da una parte e l’altra della stanza, la musica ‘strana’ del disco bianco aveva un po’ raffreddato quell’energia che aveva posseduto la puntina solo un vinile prima. L’altalena dei sentimenti di quel periodo catturata perfettamente in due dischi così diversi.

Il disco era A New Form Of Beauty 2. Era un tipo di musica anche fin troppo diversa da quello che mi aspettavo e, più ‘posseduto’ dall’energia del disco con la copertina gialla, pur trovando un certo fascino per quella stranezza ‘maudit’ nelle tracce paranoiche del vinile, non ho più approfondito la conoscenza sul gruppo per diversi anni. Fin quando il cantante con cui all’epoca volevamo fare un gruppo (che non fosse sulle cose per cui ci si era incontrati in un gruppo precedente) mi passa una cassetta per farmi capire il tipo di musica che gli sarebbe piaciuto fare.
Naturalmente conoscevo già (e solo per sbaglio) i Virgin Prunes, anche se ignoravo il fatto che avessero fatto un altro disco. “Dovrebbero piacerti dalle cose che mi hai fatto sentire sulla cassetta che mi hai dato”. E così è stato. E il gruppo lo abbiamo anche fatto alla fine, anche se quelle prime cose ispirate ai Virgin Prunes sono rimaste nel cassetto.

Erano passati sette anni dalla volta in cui avevo cominciato ad ascoltare ogni tipo di degenerazione sonora associate al disco con la copertina gialla e pur essendo consapevole che il mondo fosse andato avanti (e indietro) musicalmente, ero spesso tornato su quel 12″ paranoico, inquietante e ossessivo. Un po’ perché la copertina mi era sempre piaciuta e un po’ perché quelle atmosfere continuavano a esercitare un certo fascino perverso.

Anche se poi con gli anni sono andato avanti (e indietro) con gli ascolti, mi è sempre piaciuto perdermi tra le luci ogni volta che capitava di ballarli nella nebbia dei neon e del ghiaccio secco.

Da quella registrazione su cassetta di If I Die I Die non mi aspettavo nulla di poi tanto diverso… e invece quel qualcosa che negli anni mi aveva avvicinato inconsciamente alle atmosfere maledette e infestate di “Sweet Home Under White Clouds” (che preferivo nella versione dell’album con il senno del poi) mi aveva fatto ascoltare e riascoltare quella cassetta ripetutamente.

La teatralità e l’ancestralità di quelle sonorità non ha smesso di accompagnarmi per diversi anni da quel momento.
Il basso non era troppo diverso dal tipo di cose che mi sarebbe sempre piaciuto suonare e quell’incrocio dei suoni di chitarra drammatico, le doppie voci che si incastravano come in un film surreale, la batteria minimale e tribale in alcune tracce e quasi disco in altre, sono state l’ispirazione per molti gruppi che da loro sono stati influenzati.

Da lì a prendere il vinile il passo è stato breve. Era una follia riflessiva dalle atmosfere maledette, oniriche e ancestrali per il primo lato, (quello marrone) e una new wave più nuova, isterica, ironicamente e stranamente minacciosa o scherzosa allo stesso tempo nel secondo lato (quello azzurro). Come se fossero diversi gruppi su uno stesso disco, e quella era una cosa che avevo finito per apprezzare dopo i ripetuti ascolti. Pur avendo provato a trovarmi le cose prima e dopo quel disco, l’art rock sperimentale di quello che era venuto prima e dopo aveva lasciato il tempo di qualche ascolto: quello su If I Die I Die era semplicemente pura ‘perfezione’ al confronto.

Quello che tutti avevamo era il vinile originale dell’epoca stampato dalla Base Records, quello con nove tracce e 45RPM scritto sul lato B. Non è che abbia impiegato molto per capire che i Virgin Prunes non potevano suonare come i Chipmunks, ma succede anche questo in una serie di sviste grafiche. Chissà quanti lo avranno ascoltato alla velocità sbagliata in Italia.

I vinili e le puntine erano quelle che ti potevi permettere tra un vizio e l’altro e il fascino di sentire la musica senza quello che aveva cominciato a essere il fastidio degli scricchiolii del vinile —che finché c’erano sempre stati non erano mai stati un problema se non per l’amico che i vinili non li puliva ‘troppo’ bene quando ti faceva una cassetta e tu te ne accorgevi solo se un altro amico te ne faceva una versione più pulita— La bellezza di apprezzare quello che si ha finché non sperimenti anche le altre caramelle.
La ‘mitica’ purezza del suono associato al CD esisteva e non esisteva per dirla tutta.

“Registrato ai Windmill Studios di Dublino nell’estate del 1982 e prodotto da Colin Newman degli Wire, piuttosto che adottare un formato A / B, ai lati del vinile del 1982 e alla copertina dell’album (ideata da Steve Averill), sono stati dati colori marrone e blu, simboleggiando rispettivamente terra e cielo. Anche l’artwork su ciascun lato della copertina interna è stata invertito in modo che entrambi i lati potessero essere letti come copertina. La fotografia di Ursula Steiger ha catturato, sul lato marrone, la band che corre attraverso una foresta come una tribù nomade. Sul lato blu li troviamo poi in diversi costumi, che si esibiscono con il fuoco e manichini all’interno di un edificio abbandonato.”

Già all’epoca trovare la prima stampa su CD era un impresa. Quando mi è capitata fra le mani dopo essere stato abituato alla grandezza del formato vinile avevo subito storto il naso come tutti quelli che il disco se lo vedevano mentre lo ascoltavano. Solo col tempo poi sono riuscito a riascoltarli nelle diverse edizioni che si sono succedute negli anni.

Quella prima ristampa su CD del 1990 della Rough Trade aveva una traccia in più per fartelo ricomprare naturalmente: “Pagan Lovesong” del singolo. Ma aveva anche una traccia in meno rispetto al vinile; o meglio aveva anche una versione diversa di “Baby Turns Blue”. Il titolo esatto avrebbe dovuto essere “The Faculties Of A Broken Heart (What Should We Do If Baby Turns Blue)”. Era infatti quella del 12″ di The Faculties Of A Broken Heart.

Nel 1993 la ristampa della New Rose aggiungeva di fatto anche “Chance Of A Lifetime” e “Yeo”, sempre dello stesso 12″, portando le tracce a 12 in totale (omettendo la versione estesa presente sulla prima stampa su CD e restaurando la versione originale del disco però).

La ristampa del 2004 della The Grey Area (una sotto-etichetta della Mute) aggiungendo “Dave-Id Is Dead” (il lato B di Pagan Lovesong) e l’inedito “Fado” (forse la più bella che non hanno ‘mai’ scritto) in teoria doveva essere l’ultimo tranello per farmi ricomprare ancora lo stesso disco per una canzone che non avevo. Mancava all’appello il remix di “Baby Turns Blue (Director’s Cut)” e la versione ‘estesa’ della prima stampa su CD però. La Director’s Cut era uscita sul 12″ An Extended Play e in digitale come singolo, sempre del 2004, e da solo sarebbe valsa la pena di ricomprarlo un’altra volta se lo avessero ristampato l’anno dopo con tutto lo spazio che ancora potevo permettermi all’epoca!

Credendo che fosse il remix che cercavo, per puro caso me li sono ritrovati in una compilation della React (un etichetta dance) a cura del tipo degli Specimen, Johnny Slut, che all’epoca passava quel tipo di sonorità new wave al Nag Nag Nag di Londra e che ha dato il nome alla compilazione da lui curata. Mancava solo quella nella ristampa del 2004 e suonava allo stesso ‘ridicolo’ volume alto.

Aggiunta alla collezione anche quella, poi mi sono accorto che era la stessa della compilation Over The Rainbow (che racchiudeva in un paio di CD le rareties del gruppo), e giustamente era presente con il titolo originale “The Faculties Of A Broken Heart”. Quindi la stessa della prima stampa su CD, ma andava bene anche così.

Quello che ho preferito evitare di fare con la ristampa del 2022 della BMG è stato ricomprare un’altra volta quello che avevo comprato altre tre volte naturalmente, anche se solo per il packaging ne sarebbe valsa la pena. Ma è stata la musica che mi aveva avvicinato al gruppo alla fine, e non l’immaginario del libro francese. E quindi ho preferito prendere la versione digitale che suona come quella del 2004 (ma meglio) e che aggiunge altro materiale di cui forse potevo anche fare a meno, ma che volevo comunque avere per completare la visuale del disco ‘perfetto’ di quel gruppo ‘sovversivo’ che tanto aveva ispirato le persone che avevo avuto modo di conoscere nel tempo.

Purtroppo la versione digitale di 22 brani che circolava inizialmente ha le tracce di quello che equivarrebbe al secondo disco della stampa su doppio CD, non normalizzato. Non si sente allo stesso volume del primo disco in pratica (tranne la versione del 12″ di “Baby Turns Blue”).
Il singolo digitale di “Pagan Lovesong (40th Anniversary Edition)” (che equivale alle ultime tre tracce) invece ha i volumi corretti per esempio. Ma magari se ne saranno anche accorti per la stampa su CD. Il remix di “Baby Turns Blue (Director’s Cut)” è stato incluso come (Colin Newman Remix 2004).

Io sinceramente a parte l’interesse per le versioni inedite (il demo di “Pagan Lovesong” fra tutte) che spero troveranno il tempo di ulteriori ascolti —troppa musica ancora da ascoltare— continuo a preferire la versione ‘componibile’ delle ristampe della New Rose del ’93.
L’errore di aver fatto circolare una versione pre-mastering del secondo disco con i volumi meno schiacciati ha di fatto completato la visione perfetta di quel periodo del gruppo che volevo farmi. Diventerà una rarità digitale nel tempo! Anche perché la versione che potete ascoltare nelle piattaforme digitali è stata corretta con i volumi uniformi alla fine!

La ristampa su vinile trasparente —di fatto (se fosse stato nero si sarebbe sentito ‘diversamente’ meglio) senza il nero del carbonio tenderà ad attirare polvere ed elettricità nel tempo— ma è stato preferito l’aspetto ‘visivo’ con questa ristampa. Il vinile originale si sentiva già meglio del CD anche all’epoca comunque. Per i miei gusti la ristampa del 2004 aveva già una dinamica eccessivamente ‘schiacciata’ per essere ascoltata al più alto volume possibile. Anche se questa non è poi tanto diversa a parte le frequenze alte meno taglienti e quelle basse più rotonde: la tecnologia va avanti e la distorsione tipica associata al volume ‘massimizzato’ della versione del 2004 qui è mascherata decisamente meglio.

Mi sarei aspettato qualcosa più in linea con la ristampa dei Corpus Delicti, dove i tipi della Cleopatra non hanno ‘schiacciato’ il volume per la prima volta in anni forse, ma alla BMG ‘sanno quello fanno’ come direbbero loro.

Il packaging delle edizioni fisiche è comunque stupendo e vale la pena solo per quello. Quando hai già quattro copie in casa di If I Die I Die (LP e tre diversi CD) ricomprarlo in formato fisico anche solo per il booklet non è proprio cosa. E poi non ho più spazio!

Ma saranno in molti ad avere vinile originale e CD già presenti in collezione e non voler perdere questa riedizione anche solo per il booklet.
Anche se personalmente continuo a preferire ‘sentirla’ la musica, saranno in tanti che preferiranno ‘vederla’ e decideranno di non perdere questa ristampa! Ma va bene anche così!

https://www.virginprunes.com/