Segnalo questa pubblicazione risalente al 2029, e da me vergognosamente scoperta ben dopo, certo che susciterò con queste righe la curiosità di chi ancora non ne conosce l’esistenza. E che non giudica mai l’aspetto bensì fa affidamento alla sostanza. Perché il Tempo porta mutamenti del corpo e nello spirito, ma se il primo mostra i segni della stanchezza, il secondo sovente ne esce rafforzato.  

L’autore di questo scorrevole tascabile (comodissimo da portarselo appresso, mi ha tenuto buona compagnia nei brevi tragitti che percorro in treno) è Marco Ghiotto, critico, giornalista ed insegnante e profondo conoscitore dell’universo DD. E sopra tutto fan del quintetto/quartetto (senza A. Taylor non sarebbero stati gli stessi, agli inizi, e vanno computati anche coloro che transitarono nel complesso per un periodo di tempo limitato, considerando l’apporto fondamentale all’evoluzione, od alla sopravvivenza dello stesso, che più d’uno ebbe). Il che non lo esenta da esprimere, quando richiesto dalla circostanza, un giudizio assai critico sull’operato di questi musicisti che, si mettano il cuore in pace i miei tanti coetanei che hanno sempre manifestato loro disprezzo, e che magari se li ascoltavano nell’ombra, hanno effettivamente inciso sul corso della musica pop/rock degli ultimi quarant’anni.  

Scrittura avvincente ed elegante, priva di inutili fronzoli ma non scarna, un ritmo che pare seguire quello delle canzoni esaminate. Trionfi, drammi pubblici e privati, cadute e risalite, spesso precedute da più o meno maldestri tentativi di riprendersi una scena (o alle mode?) che stava scivolando via di lato. Perché il pop ci ha abituati a riabilitazioni clamorose, e mai decretare la fine di un gruppo, di un genere, di uno stile espositivo, prima o poi assisteremo al loro ritorno.  

Non è una biografia ragionata. Sono impressioni, fatti, spunti, riferimenti dai quali Ghiotto elabora temi che possono essere o meno condivisi, ma vanno sicuramente apprezzati. Canzoni e video-clip, testi e contesti, moda e televisione, apparenza e sostanza. Tutto ciò che nei primi anni Ottanta veniva esibito con affettata noncuranza. Con quel senso di appropriazione del vacuo, l’ostentazione dell’effimero come attimo nel quale concentrare tutta la propria vita. Un’epoca irripetibile. Annodare la cravatta come se fosse l’ultimo gesto compiuto in Vita.  

Una nota di merito per il metodo applicato all’analisi di una discografia a conti fatti assai vasta: da “Duran Duran” a “Paper Gods” (che è l’ultimo preso in esame, “Future past” è successivo alla stampa) le schede dedicate ad ogni singolo album meritano più di mille recensioni. Ma qui sta a voi approfondire, vi consiglio di tenere a portata di mano le copertine ed i libretti. 

L’ingresso nella Rock’n’Roll Hall Of Fame, ultimo tassello d’una carriera che, permettetemi, pochi loro coetanei possono vantare, rappresenta solo l’ultimo riconoscimento a quanto da questi ex-giovinotti fatto. Se sono ancora qui, un motivo deve esserci. Evento coinciso con la resa pubblica della malattia del più a lato della band, il ragazzo terribile Andy Taylor: ancora una volta, il destino (del gruppo e dei singoli) che pretende il suo dazio. La legge del music business?  

Tre minuti e mezzo di vita vi richiederà poco tempo, corre via veloce come “Planet Earth”, o come “Rio”, come i clip che la televisione trasmetteva, e sui quali hanno fondato le loro prime fortune. Perché le loro canzoni vi accompagneranno, saranno lì in sottofondo. Merito della scrittura pop di Ghiotto, merito delle sue competenza ed intelligenza. Non è una celebrazione, è solo una storia, una magnifica storia narrata con acume e spirito leggero (ma non troppo).  

Ed oggi che scrivo, trentadue anni fa (!), vedeva la luce “So red the rose” degli Arcadia. Che sto ascoltando, ora è “The flame” ad essere suonata dallo stereo. Ma questa è un’altra storia, che meriterebbe un approfondimento.  

(Ringrazio Giancarlo Punzi, mia fonte di ricerca “duraniana”).