Si articola in otto brani lunghi (più due brevi intermezzi strumentali, “A wasted life” e Reflections”), che danno modo al fondatore Mortuz Denatus di dare libero sfogo al proprio talento, il più recente lavoro degli svedesi, alle prese con un black metal sinfonico poggiante su un tappeto tastieristico articolato che indulge in atmosfere rarefatte, dolenti, enfatizzate dall’appropriata prova vocale di Änglamakaren. I brani procedono con andatura compassata, squassata da repentini interventi della batteria, ora impostata su ritmi furiosi che comunque non occupano porzioni importanti di ogni singolo brano, ora pronta a sottolineare con il suo cupo incedere il tema funereo che pervade l’intiero lavoro. Un concept ambientato nell’Inghilterra rurale del secolo diciannovesimo, una vicenda tragica che ha evidentemente assai colpito, ed appassionato, i Mist Of Misery e chi di loro si occupa della composizione (la posizione di Denatus è certamente preminente). “The long road” (assonanza con il celeberrimo “The road” di Cormac McCarthy), “Into the embrace of Winter”, entrambe pubblicate pure come singoli, sono gi episodi più incisivi di un disco che comunque non da segno di cedimenti, risolvendosi nel capitolo più maturo della discografia del complesso. Lo ho ascoltato in cuffia, alla televisione scorrevano immagini di paesaggi imponenti documentanti la forza della Natura, ne sono rimasto vivamente impressionato. L’opener “An ode to solitude” (assolve al titolo un brano evocante una disperazione profondissima) e la a tratti più ardimentosa title-track sono altri due episodi da segnare sul taccuino dei migliori, ribadendo la compattezza di un album che nulla teme al confronto con i più blasonati. 

 

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