I critici musicali, si sa, sono strani animali. Hanno l’abitudine, fra le tante altre, di collocare in uno specifico contenitore ogni gruppo/artista con il quale vengano a contatto. Fondamentale che la scatola (me l’immagino come un imballaggio di cartone anche un po’ ammaccato) porti ben appiccicata un’etichetta. La confortante sicurezza della classificazione. Qualche scienziato in vena di perdere tempo dovrebbe studiarli, come fa con i pipistrelli dello Zimbabwe. Che forse sono diversi dalle nottole che volteggiano sul prato dinanzi casa mia. 

Suede. Scatola brit-pop, così ci togliamo il pensiero, essi sentenziarono. Ma sappiamo che non fu così. I Suede possedevano stile, eleganza esibita con manifesta noncuranza, ciuffoni e camicie di seta. Belli e sfrontati, agganciarono il successo prima ancora di palesar qualcosa di concreto della loro innata Arte. Gli anni tumultuosi che seguirono confermarono una volta tanto le aspettative. Una seria di dischi segnati da canzoni memorabili, pop adamantino (si, lo ha detto Bryan Ferry, che c’è di male a scrivere canzoni pop, quando lo fai con cotanta classe?). Melodie che disegnavano traiettorie perfette, una qualità di scrittura ed una costanza riservate solo a pochi fortunati. Loro fra questi.  

Precedettero Autofiction otto albi, solo uno ritenuto da tutti, loro compresi, troppo debole per competere con gli altri. Il fratello troppo gracile d’una nidiata di corpi fidiaci. Sette dischi che evocano la bellezza assoluta del marmo bianco perfettamente levigato da mani dotata d’innate grazie e talenti, superficie priva d’imperfezioni emanante il riflesso d’una luce ultraterrena, semi-divina. E se sommiamo la sequela impressionante di singoli che la benevolenza del complesso albionico ci ha elargito, potremmo contarne almeno un altro paio, di long playing.  

Quando ascolti queste nuove, nuovissime canzoni, si reitera quella stretta alla bocca dello stomaco che ti provocò “The drowners”. Eppure, sono trascorsi quasi trent’anni. Manca poco all’anniversario tondo. L’età ha portato separazioni, drammi, la Morte ha trascinato via con sé affetti. Le gioie non compensano mai i dolori. Mai. Servono a lenirle, giochi nel parco con tua figlia e pensi a tuo padre che se non è più, e che potrebbe essere lì, con te. E negli occhi della bimba rivedi lo sguardo tenero di tua madre. Anche se non è vero, anche se è l’immaginazione a guidare i sentimenti. Il Fato è un giocatore perfido, fa scivolare le carte sul banco e tu nemmeno te ne accorgi, che è troppo tardi ormai. Ha vinto lui e riscuote il dazio. 

Ascolti “Drive myself home” mentre inconsapevolmente fai scivolare il dito sulla polvere che ricopre il telaio di vernice scura ed un po’ scrostata dal sole della finestra, il Tempo pare sospeso ed il pensiero avanza lento attraversando gli spazi incommensurabili della memoria. Prima e dopo, si libera l’impeto, si sciolgono le briglie, e l’insieme tutto accelera, scuote l’aria, tagliandola con un suono secco che però non cede mai alla furia cieca. 

Anderson/Osman/Gilbert/Oakes/Codling si dichiarano subito con “She still leads me on”, ogni tessera al suo posto, mosaico perfetto oggi come allora, trent’anni quasi fa. Ancora belli, nelle loro mise nere, i capelli più corti ma sempre in ordine. Affidatela a Steve Lillywhite, questo è il suono che egli forgiò e che donò agli Psychedelic Furs. Sono i Buzzcocks che t’insegnano che puoi suonare così, mantenendo intatta la forma (“15 again”, “Black ice”). Ma c’è Ed Buller al banco, ed ecco Autofiction e la sua memorabile collezione di canzoni. L’ispirazione non cala mai, nessun allentamento nemmeno quando il ritmo si fa da parte. Sono cresciuti, massì invecchiati e noi con loro, ma oggi come allora c’è bisogno di “Personality disorder”. Ci trasciniamo dietro un bagaglio sempre più pesante, dal quale però trarre conforto, “Turn off your brain and yell” si libera nell’urlo anthemico, un grido indirizzato dalla sommità del colle che cala giù a ricordare a tutti che ci siamo ancora, quando gli ultimi raggi del sole morente sfiorano la pelle del volto contratto dalla tensione che pian piano si scioglie. Il rumore che chiude il pezzo ed Autofiction lascia però sgomenti. È la rottura, ma lo avevamo inteso anche al principio di “She still leads on me”, medesimo suono provocato da chissà che. Epilogo preceduto da “Shadow self”, corsa a perdifiato punteggiata da una chitarra emersa direttamente dai primi ottanta, con echi di Banshees e del tocco unico di McGeoch che confluisce nella introversa ed esemplare (ancora dello stile-Suede) “It’s always the quiet ones”, e da “What am I without you?” e quante volte ce lo siamo chiesto? Anche Anderson, rivolgendosi però ai suoi sostenitori. Perché chi è una rock’n’roll star senza il suo di pubblico? Ode magnifica che è omaggio e testimonianza. Anche di quanto siamo fragili, effimeri, e quivi il Fato torna a palesarsi. Attenti, esso è implacabile. Quello che decide per noi è sentenza inappellabile.  

È vero, è solo musica, sono solo canzoni, ma perché rinunziare a questo piacere?