Steve Jones: Lonely boy – La storia di un Sex Pistol 

Magazzini Salani 

Adriano Salani Editore 

Agosto 2022 

Pagine 288 

Euro 16,90.- 

Titolo originale: Lonely boy – Tales from a Sex Pistol  

http://www.magazzinisalani.it 

Fine anni Settanta. Sei un ragazzino che da poco ha varcato la soglia del secondo decennio di vita. La televisione (quel canale che una volta tanto rende noi che viviamo a ridosso del confine dei privilegiati) manda in onda un video che immortala quattro ragazzotti apparentemente messi male (confine fra realtà e finzione annullato dalla beata ingenuità) alle prese con un frastuono semi-indecifrabile. Imbracciano gli strumenti con fare sufficientemente disinvolto, uno urla al microfono movendosi come uno scalmanato, sei già un iniziato a suoni che non siano quelli della chitarra acustica del cantautore o quelli patinati della pop music in voga all’epoca (che rifiuti in blocco, entrambi), ma dinanzi a questo spettacolo ti trovi impreparato. È già tutto finito. Ma tu vivi in provincia, quello a cui hai assistito è una novità. Ti cambierà la vita? Anche no, o meglio solo in parte, ma trascorrerà ancora del tempo prima di prenderne coscienza, non è che il giorno dopo ti rechi a scuola coi vestiti strappati e con la spilla da balia ficcata nella guancia. Però che contribuisca a renderti ancor più curioso nei confronti di quanto sta accadendo, quello sì.  

La storia, o meglio le storie di uno dei Sex Pistols. Che a leggere bene pare quasi capitato a caso, nel bel mezzo di una vera e propria (i negazionisti parrucconi se ne facciano una ragione) rivoluzione musicale e culturale. Che brucerà in fretta, ma che lascerà dei segni indelebili nello spirito di chi l’ha vissuta. Lui a modo suo.  

C’è la Musica, ovvio, che fornisce le quinte dei palcoscenici ove la narrazione si svolge. Semplice, veloce, scorrevole, sbracata. Da leggere senza impegnarsi troppo, anche per evitare imbarazzanti rigurgiti nostalgici. A sedare impeti basterà per molti lo specchio. Il rock’n’roll non rende eternamente giovani, basta cazzate, e tutti prima o poi saluteremo il mondo, questo mondo. Chi meglio, chi peggio.  

Il giovane (ed anche il non tanto più giovane) Stephen Philip Jones pare sia stato occupato per buona parte della sua esistenza in attività formative quali rubare (tutto ciò che gli capitava sottomano, con una particolare predilezione per strumenti/capi d’abbigliamento appartenuti a suoi celebri colleghi), drogarsi/ubriacarsi e minare la rispettabilità delle appartenenti all’altro sesso. Ecco su che si concentra la narrazione. Poi Steve Jones ha anche suonato, ed ha pure composto canzoni di buona fattura. Ma per il lonely boy (destino che lo accomuna a tanti musicisti, apparentemente attorniati da schiere di amici, in realtà soli ad affrontare il proprio destino ed i propri demoni) la musica è principalmente la fonte di sostentamento primaria (e di risorse da dedicare alla provvista di sostanze). Jones da giovane fragile, umiliato e mutilato nello spirito, crescendo (invecchiando?) si mostra in grado di vincere la sorte, le dipendenze, di saper infine discernere tra buoni e meno buoni. E di ricuperare (un po’ frettolosamente) il tempo perduto, che trattasi di ritrovare il vero padre (senza forzare improbabili rimedi) o di, semplicemente, chiedere scusa. Ammettendo tutti, proprio tutti, gli errori commessi, senza assurgere a maestro e/o spargere al vento consigli che apparirebbero fuori luogo. Ed egli lo sa, perché questo la Vita gli ha insegnato. Strappando sorrisi, anche risate spontanee, mai trascurando ironia ed anche suscitando un certo compatimento. Ma infine, a lui è andata bene, e le fotografie (bello e curato il corredo che completa il volume) che lo ritraggono con gli occhiali, i capelli corti ed in ordine ed un fisico non proprio statuario, ma decorosamente conservato, lo dimostrano (a pag. 263 stila un elenco di “cose che non sono rock’n’roll” compendiante “tingersi di nero i capelli”, “i vecchi con il lifting” ed “I vecchi che vogliono sembrare giovani”.  Jones è coerente. E queste cose non le fa. 

Certo, non mancano gli aneddoti, sui Sex Pistols e non solo, ci mancherebbe, chi sarebbe il lonely boy, senza il detestato (ma non fino in fondo) JR, senza l’amico (il vero amico, lui sì), Paul Cook, senza Matlock troppo diverso dagli altri tre, ma fondamentale per l’edificazione del suono-SP, senza il burattinaio McLaren e senza colui che ne accelerò la combustione. Un vero gruppo. Che fece quello che doveva fare, in fretta prima di deflagrare, liberando una scia di detriti, raccattati da tanti che su di essi hanno costruito solide carriere. Poi i Professionals, i Chequered Past, i dischi solisti (di buona fattura, non pretendente, se non li conoscete, chitarre rovinate e suoni primordiali), certo ci sono, non possono non esserci, ma Jones lascia che ad emergere siano gli aneddoti, disegna con sagacia figure e tratteggia caratteri, non scende nel dettaglio tecnico, mai. Pur essendo un ottimo chitarrista, non tratta la sua dote come elemento di distinzione per elevarsi sopra gli altri. Perché Lonely boy è la storia di un Sex Pistol, non dei Sex Pistols. Un piccolo delinquente che è un sopravvissuto ad una età irripetibile, e che di questo è riconoscente. È stato aiutato (dalla buona sorte sicuramente), ma se le è cavata da solo.  

Tutto vero? Chissà. Fino a quanto la memoria devastata dagli abusi lo ha sorretto, quanto (succede a tutti, dai, con gli anni va così) la fantasia è corsa in suo soccorso turando le falle? È possibile che non lo abbiano mai arrestato, con tutti i furti che si vanta d’aver perpetrato? E che nessuna creatura sia apparsa alla sua porta denunciandosi come sua/suo figlia/o, vantandosi esso di una serie impressionate di imprese (?) passionali? Non curiamocene troppo, quel tipo con il fazzoletto in testa che suonava la chitarra accanto a quell’altro che urlava con gli occhi fuori dalle orbite è arrivato vivo (quanto sano non so) fino ad oggi, con questo libro (e con la serie che ne è stata tratta) ha raccolto ancora qualche spicciolo (commisurato alle entrate di una rock-star, non di noi poveri comuni), ci ha tenuto compagnia e ci ha fatto passare qualche mezz’oretta piacevole ancora. E si è ripulito la coscienza.  

Diretto, senza filtri se non quelli della memoria che, ripeto, sicuramente si sarà offuscata. Veloce ed immediato come “Bodies”, o come “Seventeen”, inserite voi il titolo che preferite. “Here the Sex Pistols” (and Steve Jones, of course). 

Ma è possibile che, nel 2022, ci sia ancora qualcuno (più d’uno) che, una volta da voi dichiarato che state leggendo “la biografia di uno dei Sex Pistols” (ammesso che si tratti di chi ne conosce l’esistenza non solo per “sentito dire”) liquidi il tutto come “ma dai, uno di quelli lì, facevano schifo” (realmente accaduto)? Sì, ed allora è vero, furono e sono tutt’ora necessari. Però, che tristezza, sapevano suonare e “Never mind the bollocks” è prodotto benissimo. Ma non perdo tempo a spiegarglielo.
Non arrivarono per primi. La stessa emittente di cui all’introduzione a questo mio articolo, proprio la settimana precedente (sempre un sabato primo pomeriggio), mandò in onda il video di un altro quartetto di fracassoni. Fronteggiati da un figuro abbigliato come un becchino, che cantava meglio. Mi piacquero più dei Sex Pistols. Ovvio no? 

Mi ero incapricciato, giusto l’estate precedente (all’epoca della visione di quei primitivi clip era autunno), dei Roxy Music. Che il lonely boy cita spesso. Ancora una volta, tutto quadra.  

Lonely boy, parole e musica di Paul Thomas Cook e Stephen Philip Jones.