Trinity pone fine ad una (lunga) attesa protrattasi fin dal 2014, otto anni di assenza per il complesso guidato dal sagace Peter “Bob” White. Coerentemente, non mi attendo particolari variazioni al classico canovaccio gothic di manifesta derivazione nephiliana/nefiliana, certo che quanto proposto non deluderà le aspettative. E l’iniziale “Surrender to my will” (con il sottotitolo “The Demon & the Witch” sfiora senza dar segno di stanchezza i nove minuti, più compatta è rinominata “No mercy”, mentre l’”Original sin” si pone a distanza mediana tra le due) non poteva inaugurare più efficacemente il nuovo disco, il quale conta ulteriori due inediti e ben cinque tra versioni remix ed alternative dei titoli ufficiali, scelta inoppugnabile che somma esperienza ed acume. Una facile vittoria, una canzone esemplare, mi ripeto, un classico: la voce irosa di White, la batteria di Luca Mazzucconi che letteralmente carica i compagni, le chitarre che calano fendenti moderatamente heavy, sintesi perfetta del gothic traslato nel terzo decennio dei duemila. “To find my heaven” sviluppa con mestiere e gusto il tema della ballata virile, come solo gli anglosassoni sanno gestire. Quella strada lastricata di dolore che ci conduce, andando indietro nel tempo, a “Vet for the insane” e su fino a “Body and soul”. L’ala nero-romantica del rock, canonizzata anche dai Paradise Lost, dai My Dying Bride e dagli Anathema, le fosche pulsioni dei quali sono velatamente citate nel dolente solo di chitarra che si acquisisce dinamicità accompagnato ancora una volta dalle percussioni che aprono squarci nel plumbeo sudario che avviluppa il brano. Tanto che “Sonic on my soul” rappresenta l’esercizio di stile che un insieme di tale levatura (anche se è evidente che la direzione è appannaggio di White) esegue con puntiglio (ed il violino arricchisce l’ordito coi suoi discreti interventi). Il sentimento muta ancora, il finale epico si staglia nel cielo corrusco del tramonto.  

E’ noto che non sono un acceso sostenitore delle versioni remissate ed alternative, qui devo però manifestare il mio gradimento, MG Twaithe si mostra accorto nell’operare su “Surrender…” fornendoci una versione assolutamente credibile dell’originale, e la preferisco (non me ne voglia l’autore) all’”Insurgent version” di Ben Christo, troppo modernista, mentre il “Penitent cut” di “To find my heaven” nulla aggiunge, né toglie, alla sorella maggiore.  

Solo tre inediti che, mi auguro, non rimarranno episodio isolato, ed almeno due di buona fattura. La competenza di chi compone non si discute, nessun azzardo, a costo di apparir reazionario, meglio così.