I Wardruna, che piaccia oppure no, sono divenuti ormai un fenomeno. Forse è un dato inatteso, ma è reale: allorchè si rese necessario, a causa del Covid, rinviare a gennaio 2023 la data italiana del gruppo, fissata in origine per novembre 2021, già si sapeva che non c’erano posti disponibili; l’appuntamento fu quasi subito raddoppiato e anche la seconda serata (quella di domenica 22 gennaio, alla quale un gruppetto di noi ha avuto il privilegio di assistere) è andata prestissimo sold out. Se, come si è osservato molte volte, il contributo alla colonna sonora della serie Vikings di certo ha dato una grossa spinta alla carriera della band, c’è comunque da dire che la ‘moda’ vichinga ha un po’ ‘rallentato’, vista anche l’accoglienza poco entusiasta riservata alle ultime stagioni della saga. L’interesse per i Wardruna, tuttavia, dura ancora, grazie a un pubblico estremamente eterogeneo: è apparso chiaro la sera del 22 gennaio quando, nella platea del Teatro Dal Verme, si è vista un’infinita varietà di persone, unita solo ed esclusivamente dalla passione per la musica e per un passato nordico affascinante, cui i Wardruna rendono da sempre omaggio con il loro lavoro.
Uno scenario semplice, animato soltanto dagli effetti delle luci, la bellissima runa sullo sfondo: quando ci sono i Wardruna è la musica, più che la messinscena, a parlare e a raccontare le meraviglie di miti riportati in vita con un amore che oscilla fra l’arte e l’archeologia. Ovviamente è importante percepire la relazione privilegiata di questa musica con la natura, lo spazio ove gli dei sono di casa e infatti i suoni che essa produce, che si tratti di pioggia, vento, il cinguettio degli uccelli o le manifestazioni di altri animali, ricorrono di continuo, a introdurre o concludere i brani, creando una sorta di ambito a se stante, trascendente dal reale: qui si levano le note degli strumenti, insieme alle voci purissime di Selvik e Hella, evocando l’antico ‘regno del nord’ che noi – i fortunati presenti – siamo invitati a visitare.
La scaletta del concerto comprende pezzi iconici tratti dai diversi album, eseguiti, con ogni evidenza, in base a un ordine preciso, in modo da restituire una visione più ampia possibile dell’arte dei nostri: l’uso di strumenti antichi e particolari, i racconti di miti e storie della tradizione scandinava, un contesto poetico ove aleggia la figura dello ‘skáld’ (=scaldo), il poeta dell’epoca vichinga che cantava le vicende degli eroi e degli dei. In questa leggendaria figura, Einar Selvik pare compiutamente identificarsi. I ‘magnifici’ sei sono collocati in posizione, per così dire, sistematica: quattro dietro e, in prima fila, il frontman e Lindy-Fay Hella.
Il concerto si apre con “Kvitravn” e il verso del corvo: Selvik canta quasi in trance e sullo sfondo la luce bianca riflette l’ombra di John Stenersen che suona la mora harpa. Dall’ultimo album Kvitravn è tratta anche la meravigliosa “Skugge”, uno dei brani che illustrano con chiarezza una delle caratteristiche imprescindibili della musica di Wardruna, soprattutto dal vivo, ovvero la dimensione corale, che dà l’idea di una sorta di armonia sacra, di una sostanza spirituale collettiva che interagisce con la presenza costante della natura. Ovviamente poco dopo ascoltiamo anche “Grá” (=grigio), la canzone per il lupo, divenuta famosa per il video in cui, appunto, compare un bellissimo lupo. Tutti gli altri brani, quindi, provengono dai dischi precedenti: “Solringen” – da Runaljod – Yggdrasil – con il cerchio del sole alle spalle, “Bjarkan” (da Runaljod – Gap Var Ginnunga) ove, nel verde intenso delle luci, la voce di Hella si estende in splendida, selvaggia libertà o “Tyr” le cui vibrazioni hanno il sapore delle aspre battaglie di popoli nordici. Ma anche “Lyfjaberg”, dalle percussioni rituali che fuoriescono dal blu totale della scena e “Voluspá” – la profezia della veggente dell’Edda – eseguita da Selvik in compagnia di una Kravik lyra con indescrivibile pathos, mentre poi abbiamo “Fehu” – Lindy-Fay Hella ora danza con i piedi scalzi come una creatura del bosco – e, in particolare, “Odal”, uno dei pezzi più belli di Runaljod – Ragnarok in cui, ancora una volta la pienezza corale invade il teatro inducendo il pubblico a unirsi irresistibilmente al canto.
Il tutto si svolge di seguito, senza un’interruzione nemmeno per ringraziare, di fronte a spettatori talmente presi da muoversi a malapena. Soltanto alla fine dell’esibizione Selvik, forse sorpreso, come anche i compagni, dall’entusiasmo e dagli applausi lunghi e sinceri che la platea milanese riserva al gruppo, diviene infine loquace e spiega il senso dell’operazione alla base della musica dei Wardruna, la volontà di recuperare la tradizione nordica non per aderire alla moda dei ‘vichinghi’ e non per mera passione archeologica, ma per appropriarsene, trarne ispirazione e diffonderla, stabilendo un nesso fra ieri e oggi. Sono parole dette con semplicità, sufficienti per suscitare la simpatia – e l’ammirazione? – dei presenti, a cui seguono ancora applausi, soprattutto dopo che il nostro, in una battuta, cita Vikings e la morte di Ragnar Lodbrok, ed esegue come chiusura – da solo sul palco, al centro della luce, con la sua incredibile Kravik lyra – la poesia della fossa dei serpenti: “Ormagardskvedi” conclude così la serata e un concerto che sarà molto difficile dimenticare.