Ai Burning Season mi legano bei ricordi, concerti al CSA di Udine, un’intervista per Radio Onde Furlane, poco prima di uno di questi, con Michele Piccolo e Danny Tartaglia costretti nell’angusto spazio che delimitava la regia di allora.
Ma, sopra ogni cosa, le canzoni. Il piacere di ascoltarle, di seguire il loro solenne incedere e condividere il senso stesso di esse. Carpire frammenti di testo, frasi o semplici parole, liriche che vanno a formare, con il suono, un tutt’uno inscindibile.
È così dal principio, da quel “Risvegli” autoprodotto del 1996 dal quale viene ricuperata la title-track, rinominata “The awakening”. Il laccio che stringe il passato al presente e, ne sono certo, spinge il suo sguardo oltre, al futuro. Perché ascoltando Dying Season è chiaro che i Burning Gates non intendono certo fermarsi, non fa parte della loro indole. Essi vivono per questo.
La forza espressiva di “Without shelter”, uno di quei brani che la loro storia ha reso dei classici e che potete inserire in qualsiasi delle opere che hanno preceduto la presente, sarebbe un innesto spontaneo, naturale. Ma la loro caparbietà li porta a compiere sempre un passo avanti. A non fermarsi mai, è lo spirito battagliero, indomito che alimenta la loro Arte. La passione che brucia. Il Fuoco, così importante per Michele Piccolo (i From The Fire, gli Ordeal By Fire) elemento che, tutto distruggendo al suo passaggio, monda dai peccati e crea nuova vita. Dalla Paura alla Speranza. Se il verso di McCoy evocava il rantolo iroso di divinità cosmiche esiliate ai confini ultimi del conosciuto, quello di Michele esprime rabbia, fustiga l’ipocrisia montante, rifiuta il compromesso (“Before the rain/Changing of the sky”).
Le canzoni, ancora una volta magnifiche, potenti, incompromesse, segno di una vitalità creativa invidiabile. Il marchio è lo stesso, non potrebbe essere altrimenti, anche il gothic-rock, come il doom, non rinuncia, né può e vuole farlo, ai suoi codici. La title-track, “The cloud factory (Maya’s dream)” esprimono la coesione, la visione compatta del gruppo. La chitarra che tesse instancabili trame di finissima fattura e che è sempre pronta ad estrarre la sciabola ed a colpire senza indugio, il pregevole, instancabile lavorio della sezione ritmica, uno dei cuori pulsanti più vivi e determinanti del settore, che eleva un muro solidissimo a sostegno del canto. Prendono così vita episodi memorabili come l’introversa, cupa “Days like these”, vero manifesto di un genere che non vuole soccombere, men che meno cedere le armi alle lusinghe. Se qui si balla, è sulle note di una sinfonia mortale. Ecco che “Risvegli” muta in “Awaking”, ventisei anni dopo siamo cambiati, altre cicatrici si sono aggiunte a quelle che segnavano la nostra anima.
Anche per i Burning Gates, non può non essere così. L’esperienza che germoglia nella mota dei nostri errori, cenere impastata dalle lacrime che tutti noi abbiamo versato, ed altre ne verseremo ancora. “What I know” si vota alla disciplina promulgata dai Killing Joke, l’austerità marziale dell’incedere all’unisono dei quattro, ecco che il complesso si fa corpo unico, tutti avanti, insieme. Ed infine l’urlo, liberatorio e tremendo, il tratto distintivo di Michele Piccolo, il levarsi indomito letteralmente sollevato dai suoi compagni, che lo sostengono e che nel finale lentamente smorzano l’ardore. Prima che irrompano “Thoughts of Fire”, con la batteria forsennata che scuote, che chiama all’azione e “Between solitude and freedom” paradigmatica del genere. Ma è l’epilogo a consegnarci uno dei passi più intriganti compiuti fino ad oggi dai torinesi: la mini-suite “Torment” partita in tre atti, il senso di vastità efficacemente descritto dalla prima parte (“Deepest signs”), il basso che sembra sondare la nostra mente, la chitarra che scivola di lato, facendo legittimamente propria la grandeur nephiliana, il gioco tra chiari e scuri, tra pause e repentine scariche elettriche (“Spiritual decay”), infine la liberatoria, forsennata carica finale (“Revelations”). La canzone che si fa epitome del loro credo, fermo ed inossidabile.
La produzione asciuga il suono di queste canzoni rendendole dirette, tremendamente efficaci. Lo scopo stesso, la forza d’animo che informa il loro agire, il loro creare.
So che mi ripeto, che l’ho già scritto, ma di dischi come Dying season e di insiemi come i Burning Gates c’è ancora, o forse più che mai, bisogno, disperato bisogno. E tutti noi siamo chiamati a far sì che la loro opera non si disperda. O che venga gettata tra le fiamme del fuoco che non è quello che essi invocano. Non quello che netta, che terge, bensì quello che lascia dietro di sé una scia sozza di sanie immonda.