Torna il mitico progetto di David Sabre, Dawn & Dusk Entwined, con un album che conquista al primo ascolto: concepito nel periodo 2020-2022, When I Die, Burn me in the Clothes of my Youth – il titolo ha il sapore della nostalgia e, in parte, della celebrazione – guarda più alla darkwave che al martial industrial, tratteggiando scenari suggestivi e malinconici di natura introspettiva, per lo più delicatamente sfumati; vi sono tuttavia passaggi sì dominati dall’oscurità ma animati da solidi impianti marziali mescolati a infiniti altri elementi, a cominciare dall’attitudine neoclassica. In sostanza la musica di Sabre è davvero ricca, varia e coinvolgente. La prima traccia, la strumentale “Finis Terrae”, apre lentamente con eleganti sonorità di stampo ‘orchestrale’ e procede presentando magiche, sognanti visioni. Segue la bella “Trust” che, seppur definita da un’estrosa ritmica, regala una seducente melodia su una preziosa tessitura elettronica, cui ben si adatta il canto dai toni meditativi, mentre qua e là, sullo sfondo, interviene una ‘sospirosa’ voce femminile; “Promises to Keep”, uscita come singolo, esordisce con delicate note di piano per introdurre la parte vocale a cura di un prestigioso ospite, Patrick Leagas, certo non sprovvisto di carisma, che riesce a rendere l’onnipresente oscurità ancora più abissale. Quindi, “She Came from the East” e “Dans le Lointain…”, subito dopo, sono riproposizioni di brani precedenti in versione aggiornata: in particolare, nella prima i suoni appaiono più limpidi – per quanto i colori siano divenuti ancora più apocalittici – e le tonalità canore più ‘levigate’, mentre la seconda opta per un contesto fortemente onirico, caratterizzato da sonorità ampie e variegate dai risvolti ‘atmosferici’, che non mancano comunque di momenti ripetitivi tesi e forse anche un po’ sinistri. Poi, “Brumes”, cantata con pathos da Hélène Carpentier, trasforma le tinte lugubri nel santuario di un mistero ancestrale, suscitando emozioni di ogni genere e “A la Faveur de la Nuit”, col suo andamento cadenzato vagamente marziale e le note elettroniche solenni, sembra rinnovare un sacro, arcaico rito che si dissolve alla fine in una chiusa tesa e palpitante, fluendo senza soluzione di continuità in “The Earth is my Church”: qui, fra suoni ‘temporaleschi’, ritorna la voce di Carpentier a ricreare una magia che fa quasi pensare ai Dead Can Dance. La suggestiva quanto potente “Never Learn” conclude in stile darkwave ma, ancora una volta, con spirito sacrale un album pregevole da cui non si riesce a staccarsi facilmente.
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