Il concetto di showcase viene ormai ampiamente applicato alla musica, ricorrendo a questa forma di comunicazione/esposizione anche le etichette c.d. minori. Con riscontri eccellenti e risultati consolidati (il Maximum Festival di Go Down Records è uno degli esempi più virtuosi). Unire divertimento e, perché no?, affari. Non si vendono dischi? Facciamolo organizzando date specifiche, oltre quelle dei tour pianificati, una volta che ti trovi davanti al banchetto, credetemi, non puoi resistere. Devi creare il prodotto, magari in vinile, magliette, accessori. Il marchio ben riconoscibile, band e label insieme, perché deve essere chiaro il legame artistico e pratico. 

Still We Dark è la vetrina che MOLD Records utilizza per dare visibilità al proprio roster. Non è propriamente uno showcase, come non lo è il citato Maximum Festival, ma ne ricalca in parte l’idea. Archivia la seconda edizione (la prima, da noi documentata, risale all’ottobre 2019) e se consideriamo quella che è la sua versione estiva (l’Headlight Festival tenutosi lo scorso mese di luglio in Croazia), stabilisce una linea di continuità temporale che, se insistita, può portare a risultati di sicuro interesse, in primis in termini di visibilità. Il repertorio è per ora limitato, il numero degli artisti scritturati e le strategie promozionali dovranno essere ampliati. Non si può fare affidamento solo sulla pubblicazione di videoclip, peraltro di ottimo livello qualitativo, su portali che sovente sono oggetto di frettolose osservazioni. Concentrarsi su un parco di nomi ristretto, portare a maturazione comune i progetti e porre attenzione alla qualità dei prodotti è già un ottimo inizio. Muoversi con oculatezza, poi si deve accettare le sfide ed insistere. Pervenire ad una capillare distribuzione (che trattasi di major ovvero di indipendenti, le regole sono le stesse, cambiano le dimensioni e le proporzioni, e la componente passione per le seconde riveste ancora importanza) costa impegno e comporta rischi (anche finanziari), ma giunti ad un certo livello non si può più tornare indietro. Altrimenti, scusate la franchezza, si chiude. Punto. In Italia vantiamo simili realtà consolidate ed oggetto di grande rispetto, prendere esempio da queste, analizzarne le peculiarità e quando possibile condividerne le strategie, può essere di grande utilità. L’ingegnosità non manca alla MOLD Records, e nemmeno la capacità di compiere delle scelte, ora è tempo di acquisire la necessaria visione.  

 

Ma noi trattiamo di musica, non di mercato (musicale, ma tutto è correlato), concentriamoci su di essa. 

Still We Dark II, dicevo. Siccome sono un vecchio tignoso, l’intitolazione (come per la prima) non mi convince appieno, essendo la componente oscura non preminente. Mi attenderei una bella parata di gothic-rock (magari…), ma bando alle (use e consunte) lamentazioni, questo è infine l’unico appunto che muovo (da vecchio tignoso, ribadisco). 

Giungo nel luogo convenuto allorquando gli LDV/La Dolce Vita hanno praticamente concluso il set a loro affidato, mancando due brani all’epilogo. Ma del quartetto Sebastianutti/Celeghin/Mazzon/Rossi possediamo ormai un corposo archivio, e recente è l’ultimo editto. Essi al solito non risparmiano forze, l’impetuosità di Sebastianutti/Rossi (già perfettamente calato nel rodato meccanismo di gruppo) trovano sponda nella misura di Mazzon/Celeghin; si prendono gioco dell’età e pure della stanchezza, se è ben vero che si sono esibiti pure la sera prima. Dei tre affiliati alla MOLD, sono il complesso più autarchico ed in prospettiva quello con più contenuti margini di evoluzione (o più semplice da gestire). C’è da inserire una ampia specifica. Il termine post-punk è ormai in uso da nove lustri (scritto così mi terrorizza, possibile che sia così vecchio?) e nel significato è quello che più è mutato nel corso degli anni. Oggi post-punk rappresenta (o almeno per come viene utilizzato dall’insolente stampa britannica) il più generico “rock chitarristico”: Shame, Italia ‘90, best-sellers come i Fontaines D.C. condividono con le origini e con la residuale “ala pura” l’uso (oltre che delle chitarre) tutto spigoli delle tessiture strumentali e l’impatto, poi ad ogni generazione che si sussegue lo scorrere degli eventi, della Storia, fornisce inneschi diversi. L’incertezza e la noia sono racchiuse tra le mura domestiche, ieri lo erano all’ombra dei resti dell’irreversibile declino post-industriale. “Questo” post-punk non è “quello” de LDV/La Dolce Vita che, riferendosi ad un arco temporale ben individuato, potrebbero mutare nuovamente la ragione sociale in LDV 1979 (prendendo spunto dal loro eppì recentemente ristampato). Quel che è certo, è che garantiscono sempre esibizioni coinvolgenti ed autentiche. Cravatte ben allacciate e stile. Sempre più… Jam! 

Photo by Michele Mick Gaze Rossi

Seguono gli ospiti croati Phantasmagoria, dal curriculum corposo, essendo attivi dal 1988 con ascendenze che risalgono ancora più indietro nel tempo. Nome preso pari pari dal titolo del disco pubblicato dai Damned nel 1985, essi si dedicano ad un bass-driven-goth-rock (qui ho esagerato…) assai basico (proprio nel senso dell’utilizzo di basi), attingendo ad una abbondante riserva di originali e di versioni altrui. L’uso sconsiderato di fumo (pratica assai sisteriana ma nei locali del Kulturni Dom esiziale) ha letteralmente avvolto i musicisti in una coltre spessissima; un suono non propriamente cristallino e chitarre sovente debordanti hanno inficiato l’esibizione, peccato perché diversi brani (alcuni cantanti in madrelingua), quelli più intelligibili almeno, elementi di interesse li possedevano. A proposito di cover, ne hanno eseguite tre, primeggiando quella di “Lucretia my reflection” di Eldritch/Morrison, lampante riferimento alla fonte di ispirazione primaria. Ma sui Phantasmagoria mi riservo di approfondire. Anche a questo serve Still We Dark

 

I Nomotion si esibiscono nell’imminenza di consegnarsi ad un lungo iato. Ecco che vengono meno altre considerazioni, quelle più ispirate alla ragione ed alla freddezza che il cronista dovrebbe assumere come regola, che da parte mia confuto sistematicamente. Viviamo il momento, adesso, non sprechiamo tempo che brucia in fretta. Non tutto è perfetto? Non importa, lasciamo che queste ballate amare si srotolino, s’impennino, prendano rabbioso vigore. Per un Musicista, la resa ideale della sua Arte è la ragione istessa per la quale sale sul palco. Ma può essere sempre vero? No. La bellezza di autentici classici del loro repertorio (tra i quali trova posto la recente “Lullaby Rose” alla quale voglio dedicare un paragrafo a parte) si trasforma nella posa irresoluta che la contingente emozione fa assumere loro, il calco è chiaro, i margini si smangiucchiano. I Nomotion sono un grande gruppo, si specchiano nella loro bravura con malcelata indolenza ma sono anche terribilmente efficaci. Bilanciano temperamento e concretezza: chitarra solida, sezione ritmica che usa con talento la fantasia, tastiere che attribuiscono ad ogni singola canzone un carattere, una coloritura particolare, che sanno perfettamente quando prendersi la scena, come pure sfumare lentamente nel silenzio. In quella remota pace che questi canti paiono anelare, la meta ingannevole di delusioni, di abbandoni, il pendolo del Fato che oscilla instancabile e crudele tra Morte e Vita. Davanti a tutti, Bergman si assume ancora una volta l’onere di guidare, di indirizzare il pubblico, di calamitarne l’attenzione condividendola con i suoi compagni; tutti assieme, così da anni, e vederli esitare, fermarsi e poi riprendere, non infirmerà il ricordo di una serata che porteremo con noi. E quando sul palco (come si conviene ai commiati) salgono i Misery For A Living, per una deragliante (finalmente posso scriverlo, è una questione anagrafica, la mia generazione a questo vocabolo ci tiene… deragliante) versione di “Shadowplay”, per quei pochi minuti tutto si dimentica. Se “Per un pugno di dollari” (incipit scelto per accompagnare l’ingresso sul palco dei Nomotion) ha ridefinito le regole del c.d. western, essi hanno interpretato il south/gothic senza cadere nell’errore di replicarne pedissequamente la forma. Non ci resta che pazientare, accettare e sperare che questo non sia un addio. 

 

Ultimo slot affidato al più interessante in prospettiva dei tre affiliati MOLD Records, i Sun’s Spectrum che, attingendo ad un ampio spettro di soluzioni sonore algide, siderali ed eleganti, possono aspirare ad un pubblico assai vasto. Lo conferma l’appeal radiofonico dell’ultimo singolo rilasciato, “All I want”, terzo di una serie che comprende pure “Hotel Dream” ed “In this Noon”, capitoli che mostrano una potenzialità ancora da sfruttare appieno. Un duo ancora più coeso, coordinato, con Livio Caenazzo più disinvolto, più “dentro” l’esibizione, e con Daniele Iannacone sempre affidabile, incontenibile generatore di un substrato denso, una fluttuazione costante di battiti armonici che sostengono e sospingono letteralmente voce e chitarra. Al contrario delle “coppie” dedite al garage, che lavorano per sottrazione, e dell’esausto synth-pop, i S’sS inglobano, elaborano, ispessiscono, in un gioco di rimandi (alcune citazioni appaiono evidenti) e di intuizioni personali. Ecco perché possono (devono, e qui l’intervento dell’etichetta è fondamentale), allargare la platea di fruitori, raggiungerne la più ampia possibile. Dopo aver assistito alla loro esibizione, ne sono vieppiù convinto. Eppoi, sono anche belli da vedere. 

Nell’ordine si sono esibiti: 

El Peco & The Freak Show (ospiti) 

Dance For Freud (ospiti) 

LDV/La Dolce Vita 

Phantasmagoria (ospiti) 

Nomotion 

Sun’s Spectrum 

 

DJ set curato da The Moonlight Society 

 

Al rientro: bora tesa, nevischio, una volpe che attraversa la strada, incrociando lo sguardo con il mio. The cry of Mankind. Perfetto. Tutto perfetto.  

 

Post (perché c’è sempre, un “post”). 

Un roster eterogeneo, tre gruppi diversi per esperienza/provenienza, per ispirazione, per collocazione stilistica e pure per anagrafe, ma accomunati nello sviluppo di forme espressive ben delineate (seppur i gradi di maturazione sono diversi) e nella ricerca della qualità e della cura delle produzioni e composizione. Ed anche nella Cultura (musicale e non) che ne informa l’azione. E tutti e tre sotto l’ombrello di un’etichetta che condivide e sostiene idee ed azioni. Uno Stile riconoscibile ma non, giustamente, uniforme, rispettoso dei singoli temperamenti. Se ci sarà un’evoluzione, in termini di “numeri”, di “masse”, si renderanno necessarie delle scelte. Anche coraggiose, dolorose. O forse no, perché in questo periodo storico (restringo il campo al solo “mercato discografico”), così instabile, così mutabile tutto può succedere. Basta trovarsi pronti.  

  

Nomotion: Lullaby Rose 

Singolo 

MOLD Records 

Dedico queste ultime note all’ultima creatura dei Nomotion. Una canzone pregna d’una solennità peculiare, che non è quella tronfia della ballata epica. Eppure, epica lo è, nell’accezione che questo complesso ha sviluppato. La narrazione che si insinua tra le note, l’eleganza delle tastiere, le frasi che si rincorrono fra basso e batteria, la chitarra che par volerci riportare alla cruda realtà, destandoci da un sopore tormentato dall’incubo, nel quale eravamo scivolati senza rendercene conto. Quando si palesa una soluzione, quando il dubbio pare dipanarsi, tutto cessa, improvvisamente. Crudeli! E si torna all’inizio, perché è questo che “Lullaby Rose” chiede.  

La loro musica è come una danza di falene necrofile che si muovono leggiadre sopra i miseri resti d’una coscienza degenerata, nel buio illuminato dai guizzi repenti di fuochi fatui. Non importa chi fu, a nulla vale ricordarne il nome. Trarre bellezza dal fradiciume.