Vi sono degli Artisti che con le loro opere trascendono qualsiasi tentativo di classificazione, di catalogazione. È il caso di Martyn Bates e di Alan Trench, ancora una volta uniti sotto l’egida di Twelve Thousand Days, per la quarta volta patrocinati da Final Muzik che dà corpo a The Boatman on the Downs. Riportare all’attenzione quanto per un discografico (ma nel nostro specifico caso, mai vocabolo va usato con attenzione, non trattandosi di mercanti bensì di appassionati veri) valga collaborare con chi ne ha segnato la formazione, è quanto mai necessario. La stima reciproca vale più di qualsiasi mossa commerciale.  

The Boatman on the Downs si ricollega (e non poteva essere altrimenti) alle pubblicazioni che l’hanno preceduto, fin dalla confezione, digipack in elegante e sobrio cartoncino dalla disponibilità limitata a cinquecento copie. Perché l’Arte non va svilita, chi merita ed apprezza ne possiede già una. La quiete pastorale dell’apertura “Comely”, canzone ridotta all’essenza, la voce di Bates che si leva su un tappeto di suoni avvolgenti, pare voler rassicurare l’ascoltatore più attento (non c’è ragione che i distratti ad essa s’appressino): si seguirà il flusso delle note, la guida (la voce) ci avviserà quando fermarci, per meglio apprezzare i dettagli. La luce fioca che illumina la taverna genera giochi di luci e di ombre, il caldo ci rassicura, ma fuori, nella notte, nel buio s’intravedono movimenti repenti, spiriti che indagano, occhi di selvatici che scrutano curiosi.  

The Boatman on the Downs raffigura e riprende le tradizioni dell’Inghilterra campestre, i suoi miti e le sue leggende, spesso fondate su semplici gesti quotidiani amplificati dal peculiare stile narrativo di Bates. Che trova magnifica espressione in “Arthur McBride”, adattamento di un traditional, in questo caso l’origine è irlandese, dal finale tumultuoso reso magnificamente da Trench: una protest song presto adottata anche in Scozia, in Australia e nel Nord America, oltre che in Inghilterra.  

A volte bastano pochi, essenziali accordi, altre la trama si fa più spessa, l’impronta di Bates e di Trench è sempre ben evidente, un tassello dopo l’altro la forza narrativa da loro espressa va a costituire un corpo unico, una splendida raccolta di storie. Forse antiche nell’esposizione, troppo vecchie per le platee più esigenti e votate all’effimero, ma talmente belle che, se si possiede un animo sensibile, è impossibile non trattenersi dall’ascoltarle, una volta ancora.