Quello allestito da Jesse Heikkinen (Hexvessel tra le sigle alle quali ha contribuito) è ben più che una somma di talenti, un super-gruppo come si usava in passato (si, lo so, è in uso tutt’ora, ma visti i riferimenti del progetto il richiamo all’epoche tramontate è più efficace), e Word of Sin ne è autorevole modello. Raccolti attorno a sé Henri Arvola (basso), Vesa Ranta (batteria, Sentenced), Janne Markus (chitarra, Poisonblack, Swallow The Sun) e Natalie Safrosskin/Koskinen (voce, Shape Of Despair), ha dato libero sfogo alle sue ispirazioni/aspirazioni, giungendo alla pubblicazione di un disco che non ho timori a definire eccellente. Composizioni austere, a volte dolenti, altre più risolute, ammantate d’una aura oscura, occulta (The Abbey fa riferimento al Tempio di Thelema ed all’OTO crowleyano) che volgono il loro sguardo al dark hard prog, abbeverandosene alle fonti.
Curioso che la canzone posta in apertura, la magnifica e composta “Rat King”, la quale sviluppa un intrigante tema ombroso dettato dalla voce della Koskinen, richiami nel titolo un’altra opener, “Ratking” dei The Ossuary, altro complesso assai curioso d’indagare il decennio inaugurato nel 1971. I musicisti non lesinano in quanto ad esposizione tecnica, anche se nessun episodio si risolve a mero manifesto di ego, la componente corale è sempre ben marcata, attribuendo all’opera un valore aggiunto da tenere in buona considerazione. Se si eccede in sfarzo, è perché il contesto lo richiede, la liturgia lo prevede, è una forma per affascinare, assoggettare le folle dei fedeli. Ecco perché “Crystallion” muta umore più ci si avvicina al suo epilogo, una marcia cerimoniale che non può non fare presa sugli animi più inclini alla malinconia, mentre “Starless” ci consegna ancora una volta una magnifica Koskinen, la voce della quale ci indica la via attraverso il nero pece di tenebre che pare non vogliano cedere il passo alla luce. Ma Word of Sin gioca coi contrasti, marcando la sua indole più animosa con “Desert Temple”, che nella parte centrale ci concede un po’ di quiete, prima di riprendere la carica. “Widow’s will” e “Queen of Pain” sono più lineari, non sorprendono come i brani che li hanno preceduti, ma mi piacciono proprio per questo. Ci si avvia all’epilogo, ormai.
Ad “Old Ones” che, se consideriamo anche l’atmosferico “prequel”, supera i quindici minuti di durata: come è giusto che sia, il gran finale viene affidato al brano che più identifica lo spirito che infonde l’opera tutta. Il canto di Natalie (“… a pile of ashes and bones/where the witch burners’ temple once was…”), l’incedere solenne degli strumenti, il doom cerimoniale. L’omaggio ai Grandi Antichi (“Old Ones gathered together”), sei musicisti disciplinatamente al servizio del collettivo, questa lunga traccia lo attesta, lasciandoci alla speranza che Word of Sin non venga catalogata come opera unica.