Eravamo soltanto in 44.000, lo scorso primo luglio allo Stadio Euganeo di Padova. Siamo calati sulla mite città veneta da quasi ogni parte del mondo, orgogliosi delle nostre magliette rock, determinati ad appagarci di musica, divertimento e rumore. Padova ci ha accolti un po’ disorientata – cambiamenti di viabilità, insoliti ingorghi di traffico, mezzi pubblici eccezionalmente traboccanti – ma tutto sommato benevolmente incuriosita: l’abbiamo raggiunta nel pomeriggio e si vedevano già colonne di lieti camminatori, per lo più nerovestiti, percorrere i marciapiedi in direzione stadio. I più sfortunati vagavano alla ricerca di un parcheggio, gli ‘indigeni’ pedalavano esultanti sulle biciclette o sfrecciavano sui monopattini, un cielo appesantito da inquietanti nuvoloni non lasciava intuire le sue intenzioni… ma nessuno pensa al tempo. L’evento che Padova ospita è di tale portata da essere ricordato a lungo: arrivano i Rammstein con tutto il baraccone che li accompagna, con l’eco delle polemiche che anche stavolta hanno cercato invano di sopraffarli e con la maschera abituale di scanzonato menefreghismo con cui hanno affrontato le più recenti contingenze come pure quelle passate. Ora è il momento della leggerezza che comincia a diffondersi nell’attesa, quando si pregusta il ben collaudato impeto e il calore – anche quello che brucia davvero! – di una band che, seppure in attività dal 1994, appare tutt’altro che superata e ha saputo più di una volta sconvolgere le aspettative: il popolo dei Rammstein sa che il suo affetto sarà ricompensato.

Rammstein. Foto di Massimiliano Zoppi e Francesca Ferrari

Poche parole sul contesto di ‘contorno’: cancelli aperti alle 15 – ma si dice che i fan più fedeli fossero in fila fin dal mattino – organizzazione nel complesso accettabile; il clima infido ci ha indotto a munirci di impermeabili che, alla fine, non saranno usati, giacchè la nuvola dispettosa che verso le 20 ha scaricato sui presenti uno scroscio di acqua in realtà non ha spaventato nessuno ma anzi ha gentilmente rinfrescato una serata destinata a durare varie ore. Il palco risulta, da vicino, ancora più mastodontico che nelle foto e, sulla folla crescente, l’altissima struttura incombe minacciosa, un po’ come Barad-dûr (= la torre di Sauron, per chi non abbia dimestichezza con Tolkien) davanti a Frodo e, analogamente, nera e inesorabile. Le star sono attese per le 21 ma, prima di loro, una coppia di giovani pianiste francesi, il Duo Abélard, avrà il compito, da una piattaforma più distante, di introdurre il concerto, intrattenendo i fan con una selezione di brani dei più celebri colleghi eseguita in chiave neoclassica, al pianoforte: una scelta curiosa ma forse non del tutto fuori luogo, considerando che qualunque altro musicista costretto fare da supporto avrebbe finito con lo spazientire e irritare un pubblico smanioso, come esperienze passate hanno già dimostrato.

Rammstein. Foto di Massimiliano Zoppi e Francesca Ferrari

L’eccitazione era infatti palpabile. Héloïse Hervouët ed Emilie Aridon-Kociolek – le ragazze Abélard – l’hanno tenuta sotto controllo con relativa facilità – ma quanti, nella confusione, avranno prestato davvero ascolto alle note suadenti e ispirate delle due fanciulle? – riproponendo nella loro speciale interpretazione una serie di hit, che saranno ripetute poi in versione originale sul palco principale. Un ascolto comunque interessante: un brano come “Mein Herz Brennt”, eseguito al piano, acquista un pathos insospettato, di certo diverso dall’inesprimibile senso di esaltazione che soltanto i Rammstein sanno generare quando lo suonano, ma non per questo privo di seduzione. L’esibizione delle francesi durerà circa quaranta minuti, the show must go on. Così, alle 21.05 precise, lo scopo della nostra trasferta si materializza finalmente davanti ai nostri occhi: signore e signori, ecco gli esponenti più significativi della Neue Deutsche Härte e al tempo stesso, i sei uomini più sarcastici e sferzanti, irridenti e amari, provocatori e dissacranti che l’ultimo ventennio ci abbia offerto.

Rammstein. Foto di Massimiliano Zoppi e Francesca Ferrari

Descrivere in dettaglio quello che i Rammstein, in circa due ore, presentano è molto complesso: il loro spettacolo esula dalla mera esecuzione musicale, coinvolgendo quasi tutti gli organi di senso, in particolare gli occhi. Sorpresa, stupore e, talvolta, disorientamento si susseguono fin dai primi minuti quando, dopo che le pacate note di Händel hanno accompagnato l’ascesa del gigantesco logo dei Rammstein sul palco, la minacciosa figura di Lindemann sullo schermo e poi in persona, si manifesta in posa messianica, intonando il più entusiasmante dei pezzi di apertura che un gruppo rock possa proporre: “Rammlied” invade in un attimo l’atmosfera e gli spettatori sono già alla mercè di un frontman davvero mefistofelico, talmente sovrumano da cantare emettendo luce dalla bocca, un possente Schwarzer Mann con cresta gialla sulla testa che apre le braccia come per impartire una benedizione e, così facendo, promette un leggendario premio a chi avrà atteso con prudenza, naturalmente ‘zur rechten Zeit’… questo non è che l’inizio. C’è proprio tanto da vedere, infatti, e la teatralità non è prerogativa del solo Lindemann: abbiamo il tastierista Christian “Flake” Lorenz che si affanna sul tapis roulant, forse per adeguarsi ai passaggi più ‘militareschi’, i due chitarristi che, da spiritosi comprimari, reggono la parte insieme al frontman, spari e scenette da cabaret più tante, tante fiamme. Il miglior repertorio della band si ‘srotola’ davanti al pubblico impazzito e ogni pezzo è arricchito da gag fantasiose, che spesso fanno restare a bocca aperta; anche se la cresta di Lindemann crolla al quarto brano inzuppata di sudore, l’energia che lo muove – sessant’anni compiuti, non dimentichiamolo! – sembra talmente potente da diffondersi, appunto, sotto forma di fuoco: “Mein Herz Brennt” e la fiamma si leva dal palco che è più rosso di qualsiasi rosso, ma scaturisce anche dal suo petto, là dove il cuore sta ‘bruciando’. La vitalità diviene impeto beffardo e trasforma la malinconia pesante di “Puppe” in puro dileggio, quando appare a sorpresa una gigantesca carrozzina che finisce ovviamente arsa; lo spettacolo coinvolge spesso anche i presenti, sui quali si riversano fiammate dalle colonne centrali – e Dio solo sa quanto l’ambiente fosse già surriscaldato di suo! – e poi coriandoli e violenti sbuffi di fumo, per una partecipazione completa, per non dire assoluta. Il pathos serra la gola con “Zeit”, brano di decadenza ma anche di consapevolezza risoluta ma ne riceviamo la maggior dose in chiusura allorchè le note di “Adieu” dilagano e parlano di quella morte che ‘währt alle Zeit’ e della solitudine del congedo – ‘Aus dem Leben steigst du leise/Die Seele zieht auf stille Reise’ – tanto che separarci dai Rammstein risulterà alla fine doloroso.

Rammstein. Foto di Massimiliano Zoppi e Francesca Ferrari

In realtà c’è poco spazio per la tristezza in tutte le ore che trascorriamo allo stadio Euganeo, ce n’è molto di più per l’ilarità: l’eroico Lorenz arrostito in un pentolone è minacciato dal macellaio Lindemann con un coltellaccio e poi con un lanciafiamme; “Engel” eseguita sulla piattaforma secondaria al piano, con la collaborazione di Abélard, fa da sfondo a un’altra gag, che vede i nostri raggiungere il palco principale su canotti spinti dal pubblico, mentre per “Du hast” ha luogo una breve esibizione di fuochi d’artificio… si potrebbe andare avanti ancora a lungo e non si esaurirebbe la grandezza di quanto i Rammstein hanno saputo darci e dei ricordi che, quindi, ci siamo portati a casa. Il concerto perfetto. La serata perfetta. Der perfekte Moment.

Till Lindemann. Foto di Massimiliano Zoppi e Francesca Ferrari