Ecco un altro disco con il quale dovremo necessariamente confrontarci anche negli anni che (se qualche Iddio vorrà) verranno. Non da relegare alla playlist di fine anno e poi chissà, vedremo se la Memoria ci concederà grazia. 

Percorso affine ad altri (più o meno) illustri colleghi quello di Giorgio Trombino e di David Lucido, che da una ala estrema sono passati ad aderire alla congregazione osservante le regole del doom/heavy rock. Vi prego, non badate all’etichetta che ho appena appiccicato a questo disco, sono due termini comunque da annotare a margine, come quando appunto una nota al testo che sto leggendo, per ricordarmene in futuro. Una comunione di intenti e di spiriti che ha trovato nella mai troppo lodata Sara Bianchin una compagna di viaggio ideale: quivi opera al basso, lasciando che sia Trombino a declamare. Le di lui liriche esprimono sofferenza, aderendo a quella corrente penitenziale che ci ha consegnato Trouble, St. Vitus, Pentagram: la via dell’espiazione da percorrere con piglio fiero. Le musiche, il suono assumono il calco che si fissa in una classicità canoviana. Il doom esercita le sue regole, esse vanno rispettate. Perché meravigliarsi? È così dalla fondazione, e sempre sarà, d’altronde celebriamo bande che si rifanno pedissequamente alle gesta di (veri) innovatori che operarono quasi cinquant’anni fa, e le spacciamo come modernizzatori… 

E che The Banishing sia opera non banale lo esplicita da subito l’iniziale “Let them burn”, vero manifesto: le fila serrate vanno all’assalto, sostenute dalla sezione ritmica che le sostiene, le spinge in avanti. La chitarra cala fendenti iommiani, la voce è perfetta, esemplare di uno stile consolidato e funzionale alla narrazione. Abbandonate ogni residua speranza, sarà un cammino lungo e periglioso, irrompe “The great unknown” nella quale il complesso riversa tutta la sua esperienza. Essi manifestano una autorevolezza indicibile, straordinaria che li accomuna ai Maestri del genere, quelli che ne definirono i canoni immortali. Perché è questa la sensazione che si prova all’ascolto di The Banishing (e di tutti quelli che ne hanno fornito l’ispirazione): il Tempo come concepito dall’umanità qui viene ridefinito, sospeso. E quella classicità che prima evocavo trova sviluppo nella tetragona “Guardians of silence” che si abbevera al verbo della NWoHM: episodio sobrio che riporta all’essenza, al corpo denudato d’ogni orpello consegnato al marmoreo giaciglio che lo custodirà fino al disfacimento. “Stand in the dimming light” (non a caso scelta come singolo anticipatore dell’opera) si colloca nell’alveo modellato dal fluire secolare dell’acque tumultuanti, la fierezza che lo circonfonde lo colloca tra i modelli del genere. Il titolo rivela i contenuti di “By the sword of Archangel”, da non classificare frettolosamente (indi a condannare) a mero esercizio di stile: esso è circonfuso d’una epicità solenne, maestosa (a la Solitude Aeturnus), assolutamente legittimo compiacersi della propria grandezza, quando se ne possiede il marchio. Legittimato da “Illusion Sun” che al confronto con quanto concesso fino ad ora appare ovvia, un approdo sicuro a lidi conosciuti, ma che altri verserebbero il loro sangue pur di impossessarsene. “Dawn into yesterday” è una piccola meraviglia di nemmeno tre minuti che pare estratta dal songbook dei Gryphon o dei Renaissance per l’approccio a sonorità placide, ma l’apparente tranquillità copre come una coltre gravi tormenti che affliggono l’anima. A “Dark waters” si affidano le chiavi dei cancelli rugginosi che, richiudendosi alle nostre spalle, ci separeranno per sempre dal nostro vissuto. Il cammino che s’apre dinanzi non sarà privo di perigli, ma The Banishing ci conforta. Non tutti saranno con noi. Molti abbandoneranno la via. Non fermiamoci. Let them burn.