A cinquant’anni non puoi startene piegato ad osservare le punte delle scarpe. La schiena ne risente.
E l’estate, ed anche questa estate che non si è risparmiata, si sta allontanando. Un lento commiato. È tempo di lasciarsi abbandonare.
L’elettronica discreta che introduce “Shanty” ci accoglie nel “nuovo” mondo degli Slowdive, congiungendoci alle voci di Rachel Goswell e di Neil Halstead. Trent’anni esatti da “Souvlaki”, sei dall’omonimo che ne ha segnato il rientro discografico. Non serve rileggere i resoconti entusiastici di quei siti che sancirono una sorta di santità, per una band naturalmente discreta. Gli Slowdive ci sono sempre stati, amati senza venir fatti oggetto di idolatria, con delicato riserbo.
Everything is alive fluttua nell’aria fresca della sera, sotto di noi scorrono immagini, ricordi, pensieri, alcuni sfocati, altri più netti. Sono sufficienti pochi minuti per conquistare l’anima dell’ascoltatore, anche di quello più refrattario alle emozioni.
Everything is alive è un disco che ci fa stare bene, con il pop adamantino di “Alife” guidato dalle chitarre e pungolato dalla vivace batteria. Poi “Andalucia plays” e le sue nuances dreamy che agli Slowdive sono sempre piaciute, canzone dolcissima senza essere rugiadosa, che si conficca tra la citata “Alife” ed il primo singolo (del video citato a Napoli già vi abbiamo riferito) “Kisses, uno di quegli episodi che ti fanno capire perché i cinque risultino tra i complessi più tributati a livello globale (io stesso ne possiedo… non so quanti? L’ultimo devo ancora ascoltarlo!). Struttura semplice, melodia perfetta che chiarisce immediatamente, fin dalle prime batture, che i Maestri sono sempre loro. Non una nota fuori posto ovvero superflua, ecco la differenza. E quelle voci, delle quali ci innamorammo ben prima di “Just for a day”. Con “Skin in the game” l’ambiente si fa più rarefatto, brano molto “halstaediano”, un caleidoscopio elettronico che si rifrange conto un esile muro del suono.
Che disco è Everything is alive? Come le varie componenti sono state dosate? Ha deciso il collettivo ovvero ha prevalso la linea, l’idea di uno soltanto? “Chained to a cloud” fuga ogni dubbio: un lavoro equilibrato più di quanto voglia mostrare; ci solleva (come “Shanty”) ma ci lascia sospesi a mezz’aria, immersi nella bolla delle nostre emozioni. La semplicità elevata ad Arte, ancora una volta. Chiude la nervosa “The slab”, scattante quasi a richiamarci alla realtà, a scuoterci dal torpore. Così diversa dalle altre sette, ma anche essa, indiscutibilmente Slowdive.
Poi ritorno a “Prayer remembered”, e lo sguardo indaga l’artwork di copertina cercando indizi. Infine, chiudo gli occhi.
Se ci pensate, se c’è un ”genere” che mostra una costante fioritura di nuovi gruppi/nuovi artisti, questo è proprio lo shoegaze. Ma non era tutto finito già nel ‘91? Bizzarro? Non proprio. Perfettamente coerente coi tempi che viviamo, ma sarà così anche fra… anni.
Rachel Goswell
Neil Halstead
Christian Savill
Nick Chaplin
Simon Scott