Non sia mai detto che, anche se l’anno è finito, si ometta di parlare di quello che, stando alla critica specializzata, è il fenomeno postpunk del 2021. Il fatto è che, prima di pronunciarci, sono stati necessari molti ascolti e qualche riflessione: New Long Leg, il debut album dei Dry Cleaning, è uscito la scorsa primavera e su di loro si è letto praticamente di tutto, dalla storia dell’amicizia fra il chitarrista Tom Dowse e la cantante Florence Shaw che poi cantante non è, ma è una poetessa che non ha mai fatto musica, per giungere infine alla fascinazione che la band avrebbe esercitato sull’ottimo produttore John Parish e sulla 4AD che l’ha presa sotto la sua egida. Sia come sia, i Dry Cleaning – ma lo diciamo di ogni lavoro legato in qualche modo al postpunk revival! – non inventano niente, non creano un sound inedito bensì la versione assai personale di una formula arcinota: nel loro disco si ritrovano gli echi di non so più quanti capisaldi della tradizione ’80 e ci sarà sempre qualcuno che dirà di preferire gli originali… ma ci sarà anche qualcun altro che ascolterà New Long Leg e lo troverà stupefacente. La ‘ricetta’ dei Dry Cleaning si descrive facilmente: la chitarra è sì mirabile, ma il basso non è da meno e l’energia oscura non manca; inutile dire che lo stile canoro di Shaw ha un ruolo fondamentale in tutto questo, poiché utilizzando lo spoken word con tonalità diverse e sempre con grande espressività gli conferisce una singolare capacità comunicativa che, forse, il contenuto dei testi in sé per sé non sarebbe stato in grado di creare, nonostante la sua atipicità. Vediamo più da vicino: “Scratchcard Lanyard” ostenta un basso alla Joy Division abbinato a una chitarra alla Sonic Youth, mentre Shaw declama sorniona versi da non trascurare. Subito dopo, l’andamento sghembo di “Unsmart Lady” non distoglie l’attenzione da una chitarra ben più ‘tagliente’ e dalle parole cantilenanti e “Strong Feelings” parte di basso per preparare il terreno a una chitarra tutto sommato lineare ma l’amalgama brillantemente ritmato risulta davvero efficace; “Leafy” non cambia formula se non per una tonalità un po’ più ‘ammiccante’ che sembra potersi riconoscere nella voce per lo più uniforme di Shaw. Troviamo quindi “Her Hippo”, uno degli episodi di maggior rilievo e uno dei più vicini, in quanto a suoni, alla new wave tradizionale, presentissima anche nella seguente, bella title track; in “John Wick” l’unione di chitarra e ritmica scandita con decisione sviluppa ancora nuove forme di espressione mentre in “More Big Birds” assistiamo al tentativo, da parte della vocalist, di intonare una sorta di melodia. Menzioniamo a questo punto soltanto la conclusiva “Every Day Carry” che va avanti per oltre sette minuti cimentandosi con un contesto più ‘atmosferico’ alquanto differente da quello delle altre tracce e tronca sul nascere il senso di monotonia che, alla fine, è l’unico rischio di questa musica pure così insolita.
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