Tornano i bulgari Irfan, con i loro suoni folk/ethereal pieni di mistero, che, lungo una linea vicina ad una quantità di tradizioni popolari di varie epoche – bulgare e balcaniche in primis – e servendosi di numerosi strumenti del folk balcanico e di percussioni orientali, abbracciano diversi stili, fino a creare un amalgama di grande suggestione, da molti paragonato alla formula usata da anni dai Dead Can Dance con i quali vi sono evidenti affinità. La musica di Irfan è spirituale e intellettuale allo stesso tempo: essa rispecchia un vivo interesse per la filosofia, la storia e le arti in generale ed è il frutto di una ricerca continua e appassionata, rivolta non soltanto al passato. A distanza di circa tre anni da The Eternal Return è uscito nel 2018 un disco autoprodotto, Roots, che riprende il discorso dal punto in cui si era interrotto: sei brani magici, ispirati per lo più da canti tradizionali della Bulgaria, da ascoltare in abbandono per trarne tutto il godimento possibile. Apre “Mominstvo” con i toni celestiali della voce di Darina Zlatkova, qui in luogo di Denitza Seraphimova, che sembrano letteralmente provenire da un altro mondo. Subito dopo, “More Ta Nali” esordisce con ritmi tribali e melodia folk in pieno stile Dead Can Dance, mentre “Rusa”, una ballata estremamente malinconica e estremamente lirica, rappresenta di certo una delle prestazioni più felici di Zlatkova; “Dyulber Yana” parte da un contesto minimale per arricchirsi strada facendo di sonorità inusuali e affascinanti. La seguente “Emeriga” è sicuramente uno degli episodi più belli e particolari: una combinazione straordinaria di percussioni vivaci, vari strumenti tradizionali e un accattivante flauto, che produce un effetto mirabile. Infine l’album si chiude con “Lyube Le” e la sua trama morbida ma densa, in cui, fra tutti i suoni, colpisce subito quello del magico liuto all’inizio e la vocalist fa davvero faville: in sostanza un disco di cui possiamo essere grati.
Lascia un commento