Non è facile parlare di questo album in modo da renderne efficacemente tutta la bellezza e la poesia. Einar ‘Kvitrafn’ Selvik, con il progetto Wardruna, è da sempre considerato un meraviglioso cultore del folk scandinavo, di cui ha saputo offrire una versione più moderna ma ben aderente alla tradizione, restituendone appieno il fascino e le atmosfere misteriose. Con Skald il musicista compie un’operazione nuova e coraggiosa, creando un disco con dieci brani nel quale unica protagonista è la sua voce, abbinata a tre strumenti dai nomi impronunciabili, tipici del folklore nordico: due a corda e uno a fiato. Registrato live in studio, proprio per conservare quella spontaneità che l’incisione con i mezzi usuali forse avrebbe corrotto, Skald sembra quasi oltrepassare i confini della stessa espressione musicale. È logico che una formula così minimale corra il rischio di risultare troppo monocorde e, di conseguenza, noiosa, ma non è quanto accade in questo caso, tutt’altro. Il tema dello ‘scaldo’, una sorta di menestrello delle corti dei vichinghi, contribuisce di per sè a creare un contesto affascinante e coinvolgente; Selvik è la figura ideale per poterlo incarnare e, con la sua voce struggente e ricca di sfumature, ha così realizzato un lavoro originale e sorprendente. Naturalmente, non viene meno il collegamento con gli album precedenti dei Wardruna, tanto è vero che ritroviamo, qui, brani che conosciamo, come “Fehu” e “Helvegen”, già in Runaljod – Yggdrasil del 2013, in versione ‘scaldica. Ma ciò che affascina particolarmente in queste melodie arcane e primordiali è l’amore palpabile per la tradizione popolare di un paese dalla spiritualità intensa e oscura: le dieci tracce di Skald, infatti, sanno di bosco e di cielo, di mito e religioni scomparse e, simultaneamente, anche di passioni vigorose che, quasi, intimoriscono. Apre “Vardlokk” – solo corno (bukkehorn) e voce – che, con i suoi riferimenti alla Saga di Erik il Rosso, una delle leggende scandinave sull’esplorazione vichinga del Nord America, predispone all’atmosfera ideale e fantastica che domina nell’intero il disco. La title track, poi, a quanto si è letto, riporterebbe le parole di un antico ‘scaldo’; le bellissime “Ein Sat Hon Uti” e “Voluspá” – qui in una variante ancor più lenta e disadorna rispetto a quella ascoltata in Vikings – si ricollegano a testi dell’Edda poetica, ma tutti i brani si ispirano, in generale, ad aspetti della mitologia nordica, li illustrano e ne interpretano lo spirito con un infinito senso lirico. Parlando degli altri pezzi, non sfugga l’intensità e la forza sconvolgenti di “Vindavla” o lo sconcertante lamento della durata di oltre quindici minuti – questa la sostanza di “Sonatorrek” – che, nella sua indiscutibile suggestione, mette tuttavia alla prova la pazienza di chi non lo considera vera e propria musica. Ma alla fine, è la versione ‘scaldica’ di “Helvegen”, con le sue note tristissime, a concludere magistralmente un’opera che non si potrà mai più dimenticare.
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