Horse Rotorvator (1986), rispetto al precedente Scatology rivela, musicalmente, una maturazione dei Coil. In quest’album John Balance e Peter Christopherson sono affiancati da Stephen Thrower. Da molti Horse Rotorvator viene considerato il ver­ti­ce mu­si­ca­le dei Coil anche se, personalmente, ritengo superiore la successiva fase che culminerà con il capolavoro Musick To Play In The Dark. Le ambientazioni sonore alternano atmosfere pacate (ma malsane) ad altre decisamente più concitate. Emerge indubbiamente la volontà di creare un sound innovativo che fa sue le esperienze di certa elettronica di scuola EBM.

Il “con­cept” che è alla base del disco è so­stan­zial­men­te “eso­te­ri­co”: il titolo fa riferimento a un sogno di John Balance in cui immagina come i 4 cavalieri dell’Apocalisse costruiscano una sorta di macchina infernale (l’Horse Ro­tor­va­tor), che distrugga ogni forma di esistenza. Le im­ma­gi­ni evo­ca­te dalla mu­si­ca sono “in­fer­na­li” e ma­ca­bre e non man­che­ran­no di de­sta­re l’in­te­res­se dello scrit­to­re hor­ror Clive Bar­ker, molto amico del gruppo: la co­lon­na so­no­ra del ce­le­bre film Hell­rai­ser era stata in­fat­ti com­po­sta dai Coil ma fu poi ri­fiu­ta­ta in quanto ri­te­nu­ta trop­po poco com­mer­cia­le.

I Coil cu­ra­no molto i det­ta­gli dei testi dove spes­so si tro­va­no ri­fe­ri­men­ti mi­to­lo­gi­ci mi­schia­ti a te­ma­ti­che ed os­ses­sio­ni per­so­na­li che co­strui­sco­no cosi una sorta di “nuova mi­to­lo­gia” per i se­co­li futuri.​ In Horse Rotorvator si pos­so­no tro­va­re in­fat­ti molte ci­ta­zio­ni del­l’an­ti­ca Roma ri­let­te in chia­ve ori­gi­na­le ed uni­ver­sa­le. La mu­si­ca che fuo­rie­sce dai sol­chi di que­sto disco epo­ca­le dell’in­du­strial è molto fra­sta­glia­ta, ogni traccia si ri­ta­glia un suo spa­zio pe­cu­lia­re ma ciò non mina la com­pat­tez­za di un “sound” da cui molti grup­pi in fu­tu­ro ver­ran­no ispi­ra­ti. “The Anal Stair­ca­se”, un inno all’omosessualità, apre l’al­bum in modo di­rom­pen­te: la voce ieratica di un Ba­lan­ce os­ses­si­vo viene so­ste­nu­ta da rit­mi­che scon­nes­se, tra­sci­nan­ti e mar­zia­li che si av­val­go­no del fon­da­men­ta­le ap­por­to del cam­pio­na­to­re di Peter Chri­sto­pher­son. Il “Must” as­so­lu­to del­l’al­bum è senza dub­bio “Ostia” (The Death of Pa­so­li­ni): la traccia viene introdotta dal canto ipnotico delle cavallette (registrato in Messico). Poi la musica diventa una tri­ste e com­mo­ven­te ele­gia sulla morte del ce­le­bre scrit­to­re (nei crediti viene ringraziato anche il suo assassino Giovanni Pelosi) che si av­va­le di uno spet­ta­co­la­re ar­ran­gia­men­to di archi e di ef­fi­ca­ci ar­peg­gi di chi­tar­ra acu­sti­ca. La fi­gu­ra di Pa­so­li­ni è de­ter­mi­nan­te nel­l’im­ma­gi­na­rio Coil come quel­le di Wil­liam Bour­rou­ghs, di H.​P.​ Lovecraft e di Aleister Cro­w­ley: c’è quin­di il lo­de­vo­le in­ten­to di re­cu­pe­ra­re e ri­pro­por­re le idee di que­sti ar­ti­sti ec­cen­tri­ci. Gli altri pezzi forti del disco sono la de­va­stan­te mar­cia di “Pe­ne­tra­lia”, ca­rat­te­riz­zata da un uso mas­sic­cio di chi­tar­re di­stor­te e fiati e la sua­den­te “Slur”. Molto con­vin­cen­te anche la ri­let­tu­ra in chia­ve “dark” di “Who by fire” del ce­le­bre folk-sin­ger Leo­nard Cohen. L’al­bum si chiu­de con tre tracce molto più pa­ca­te ri­spet­to alle pre­ce­den­ti ma che hanno una no­te­vo­le forza per­sua­si­va e ci­ne­ma­ti­ca. Non a caso Ba­lan­ce e Chri­sto­pher­son sa­ran­no sem­pre im­pe­gna­ti in sva­ria­ti pro­get­ti di co­lon­ne so­no­re: le at­mo­sfe­re vi­ra­no verso una sorta di dark-am­bient apo­ca­lit­ti­ca po­nen­do il grup­po an­co­ra una volta al­l’a­van­guar­dia e chiu­den­do in questo modo l’in­cu­bo ge­ne­ra­to­si da que­sti sol­chi.

Dopo Horse Rotorvator i Coil in­ter­rom­pe­ran­no il flus­so mag­ma­ti­co ed eso­te­ri­co po­nen­do fine alla prima fase della loro carriera.​ Sarà la “Moon Music” del citato Mu­sick to Play un the dark a ri­pro­por­re suc­ces­si­va­men­te la loro arte ad al­tis­si­mi stan­dard qua­li­ta­ti­vi.